Un tweet, un post, un gesto di Cristiano Ronaldo certamente non passano indifferenti, anzi, muovono opinioni e interessi economici. D'altronde ci sono numeri capaci di oggettivare la portata mediatica di questa superstar assoluta del calcio mondiale: il nostro Santo Padre (che peraltro, come noto, è un grande tifoso di calcio), per dire, conta sul suo account Twitter 18 milioni di followers, mentre CR7 supera gli 81 milioni. Ne è ben consapevole lo straordinario campione (su questo nessun dubbio) portoghese che ha costruito, sul proprio talento e su tanto impegno, un vero e proprio impero sportivo e mediatico. È cosa nota che Cristiano Ronaldo guadagni decisamente di più da quanto genera il suo indotto (che si tratti di alberghi, biancheria intima, snack confezionati di carote o lotta all'alopecia – tutte attività della sua "multinazionale" imprenditoriale) rispetto al suo stipendio da calciatore che, almeno apparentemente, dovrebbe essere il suo core business. Ma se, dal punto di vista del fatturato, il fare il calciatore non è l'attività più redditizia della multinazionale CR7, certamente resta la più visibile, la più esposta e, di conseguenza, sottoposta a giudizio.
A tutti gli sportivi capitano dei momenti "no" e le ragioni possono essere tante, ma a quel tipo di campioni a cui non viene richiesto altro che vincere, i momenti "no" vengono perdonati un po' di meno. In questo tempo che (mica solo nello sport) ci mette di fronte quotidianamente alla narrazione dell'uomo solo al comando, del comandante in capo, del risolutore, non rendere all'altezza delle aspettative diventa una colpa, forse insopportabile. Tant'è che, ultimamente, Cristiano Ronaldo che non sta certamente attraversando il suo miglior periodo sportivo, ha mandato a quel paese (non esplicitamente, ma infilando direttamente il tunnel degli spogliatoi e andandosene prima della fine della partita) il suo allenatore, reo di averlo sostituito nel corso di una partita e reiterato (sempre virtualmente) il gesto mandando a quel paese giurati e premiati al "Pallone d'Oro" non presentandosi alla cerimonia di consegna a Parigi, sapendo che a vincere il premio sarebbe stato chi per lui è come il Grinch per Babbo Natale, l'argentino Leo Messi. Cristiano Ronaldo ha preferito andare a Milano, dove l'associazione calciatori lo ha eletto miglior giocatore dello scorso campionato di serie A. Insomma meglio essere il primo a Sparta che il secondo ad Atene, per usare una metafora che speriamo possa essere accolta con ironia. Già, speriamo, perché l'atteggiamento di CR7 in queste due occasioni è sembrato tutt'altro che ironico, anzi un po' adolescenziale e distante da quella grandezza dei personaggi che sanno riconoscere le proprie difficoltà o congratularsi quando arrivano secondi (o magari anche terzi, quarti, quinti).
La magnitudine di un campione, opinione strettamente personale, si vede proprio nei momenti di debolezza, quelli che lo rendono umano, non tanto nel superomismo delle vittorie seriali. La grandezza, dice Rudyard Kipling in un bellissimo verso della sua poesia "If" (Se), sta nella capacità «di incontrare il successo e la sconfitta e trattare questi due impostori nello stesso modo» e nel riuscire «a toccare il fango senza insozzarti e dar la mano ai re senza esaltarti». Cristiano Ronaldo, in queste due occasioni, la mano non l'ha neppure voluta porgere. Peccato. D'altronde, parafrasando Francesco De Gregori, non è mica da un rigore (segnato) che si giudica un giocatore.
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