«Sotto le chiome lunghe nascondo ametiste e porto conchiglie di laghi in fronte. L'occhio anche nell'ombra riflette raggi di stelle polari, solo nel mondo il tempo m'eguaglia. In me chiudo rimorsi di cieli perduti e la certezza d'Iddio che m'ha vinto. Con me ho soffocato l'amore. Tu cuore d'Adamo più non sei che un museo di carne». Di una potenza rabbrividente le suggestioni di Davide Maria Turoldo che fremono sulla fragile immensità dell'umano. La punta che preme per prima è quella di una solitudine spaccata, smarrita e arresa. «Iddio m'ha vinto» dice Adamo, scacciato dall'Eden nelle erte maledette del suolo, del sudore e del dolore. Nel vuoto della polvere, nel labirinto dell'estraneità che lo avvolge, persino, verso sua moglie. «Con me ho soffocato l'amore»: un ritratto impietoso della dura fatica di uscire dalla prigione del sé, dell'involvere fino a soffocare. Ma la pressione del "museo" di carne, l'ombra in cui passa il tempo, non toglie la visione di bagliori improvvisi, di stelle polari, di cieli se pure perduti. Una remota nostalgia che accende sulla fronte collane di conchiglie ansanti a catturare laghi d'infinito e, sotto «le chiome lunghe», i viola cristalli d'ametista disperdono, dalla mente e dal cuore, le colonie del rimorso.
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