Il nostro errore è cercare la felicità come una banconota di grosso taglio, mentre essa si presenta a noi sotto forma di monetine: le trascuriamo con disprezzo, mentre conterrebbero una fortuna, se uno si mettesse a raccoglierle. Questo, almeno, è quanto sembra indicare l’autore dell’Ecclesiaste, che giunge a fare l’elogio dei piaceri più semplici: «Non c’è niente di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche» (Qo 2,24). « Niente di meglio»: non la perfezione, certamente, ma nella nostra
difficile condizione l’orgoglio di un lavoro ben fatto, il ristoro di un pasto in famiglia, è ancora ciò di meglio possiamo trovare.
Rimane comunque molto prudente, visto che subito dopo aggiunge: «Mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio». Non si tratta di rendere grazie al Signore che dona la felicità, ma di sottolineare quanto l’uomo non sia mai padrone della propria felicità. Vi si può avvicinare un po’ con il suo lavoro, ma raggiungerla rimane il frutto dell’incerto buon volere di Dio – che qui sembra essere solo un altro nome del caso. Nemmeno è possibile constatare, osserva lui come noi, che i buoni sono ricompensati e sempre felici mentre i malvagi sono castigati e infelici. Impossibile, per Qoelet, percepire le regole del gioco della felicità, che non si merita. Tutt’al più la si accoglie come una grazia.
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