giovedì 1 novembre 2018
Salvatore Mazza
Quando ho saputo di star male, e che cosa avevo, non ho fatto, per così dire, le partecipazioni. Nel senso che non mi sono messo ad avvertire tutti. Non l'ho fatto un po' perché non è nel mio carattere, ma anche per il fatto che con quasi 1.500 contatti in agenda rischiava di diventare una storia infinita, e tantomeno mi sentivo di diramare la notizia attraverso qualche social. Così, a parte due o tre amici "storici", non l'ho detto a nessuno, riservandomi di farlo mano a mano che si fossero determinate le occasioni. E così è stato.
Involontariamente, questo "centellinare" la cosa è diventato anche una sorta di test sociologico, o antropologico, non saprei dire di preciso. Di sicuro interessante. C'è chi – anche qualcuno con cui credevo di aver perso ogni contatto – ha saputo farsi ancora più vicino – e non solo, dico, a me ma anche a mia moglie e alle mie figlie –, ed è stata una cosa molto bella da scoprire. In compenso molti si sono invece volatilizzati dopo avermi espresso tutta la loro solidarietà, come evaporati sotto il peso di una novità troppo difficile da digerire, che probabilmente è meglio provare a tenere il più lontano possibile da sé. Altri ancora, colpiti o forse anche storditi, mi hanno detto «appena possibile ti vengo a trovare», e in generale (un paio giustificabili) li sto ancora aspettando. Infine ci sono quelli che non hanno capito e continuano a non capire.
Con uno di questi, un gentilissimo signore che abita nel nostro palazzo, "combatte" mia moglie, che ogni volta si sente chiedere: «Qualche miglioramento?», e ogni volta spiega che no, miglioramenti non ce ne possono essere. Con un altro combatto io: è un collega, ci sentiamo quasi una volta al mese, anche lui ogni volta mi chiedeva se va meglio, e io lì a spiegare. Sino a quando, in maggio, mi sono deciso a tenergli una lezione sulla Sla. A giugno ci siamo sentiti di nuovo: «Allora come va? Spero che ora il peggio sia alle spalle!». Battaglia persa.
Ma solamente uno, uno solo, Giovanni, l'ha capito senza bisogno che nessuno glielo dicesse. E per mesi, a cadenze regolari, ha continuato (e continua) a mandarmi messaggi, o a chiamarmi; senza chiedermi mai come sto, solo per parlare del più e del meno, con una scusa qualsiasi, salvo chiudere ogni conversazione con l'immancabile: "ao' mi raccomando, tieni duro e nun me fare scherzi". Non so come l'abbia capito, ma l'ha capito. Forse perché anche lui è una vita che combatte con la malattia. Con la sua, che è diversa dalla mia. Ma che di sicuro, come ho imparato, rende le persone più vicine.
(4. Avvenire.it/rubriche/slalom)
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