18 luglio, Passo delle Erbe, Dolomiti. Una giornata torrida. Il sole allo zenit brucia sulla faccia. Attorno è il trionfo dell’estate: l’erba alta ondeggia in un alito di vento, piena di fiori. Margherite, campanule, bocche di leone: bianco, oro, e tutte le sfumature dal rosa al viola in questa generosa messe selvatica, non seminata da nessuno. Un mare d’erba, sotto al sole di luglio. Presto verranno a falciare. Poco più a valle anzi hanno già tagliato, dai covoni esala lo struggente profumo del fieno. E come si affrettano gli uomini delle malghe a raccoglierlo, nel rombo delle macchine agricole. So che quando hanno tanta fretta è perché sta per piovere. (Strano, mi dico, non c’è una sola nuvola nel cielo). Non so esattamente perché, ma quando ci fermiamo sul sentiero che sale sotto al Sass de Putia mi viene a un tratto istintivo di chinarmi a terra: e così, dal basso, dall’altezza di un bambino guardo al gran prato. Sussulto allora come a una scossa elettrica, a un ricordo che torna da remote stanze della memoria – da molto lontano.
Era la fine di giugno, fra queste stesse cime. Avevo forse cinque anni. Eravamo appena arrivati da Milano. L’erba, nei prati attorno alla vecchia casa che ci ospitava, era alta come oggi. Io invece ero alta poco più di un metro, e quell’erba mi superava. La sorpresa e la gioia di inoltrarmici dentro, quasi di nuotare, proprio come in un mare. Non si doveva calpestare i prati pronti per la falciatura,
ma io di nascosto partivo per le mie esplorazioni.
Quale forza hanno certi ricordi, specie quelli legati all’olfatto, i primi che cogliamo, forse i più ancestrali: risento il profumo dei fiori ebbri di sole, distillato di pura estate. Rivedo l’ondeggiare dell’erba sopra ai miei occhi, nel ronzare dei calabroni. Io non ero più una bambina di Milano, ma una tigre, in una giungla splendente. Il sole sui capelli, le mie mani che si facevano largo nel muro d’erba. Mi richiamava indietro solo la voce di mia madre: “Marina?” E già al secondo richiamo percepivo in quella voce una nota di inquietudine. Allora emergevo, malvolentieri, accaldata, dal mio mare.
Che scossa, dalla catena dei neuroni, la memoria ritrovata di quelle estati bambine: un dono, in questo luglio di tanti anni dopo. “Ti ricordi?” È come se mi venisse chiesto. Ti ricordi come vedevi il mondo, e com’eri tu, allora? Mi ricordo. Il mondo mi sembrava meraviglioso. Mia madre era un porto sicuro in cui trovavo rifugio. Mia sorella mi prendeva per mano e mi insegnava. Il mio fratello grande mi tirava su da terra, alta, alta, finché strillavo di rimettermi a terra. Attorno, in quelle estati, le vecchie ampezzane ancora con le gonne lunghe e nere mi lasciavano raccogliere il fieno con il rastrello di legno. Troppo lungo per me il rastrello, e che fatica, sotto al sole: ma ero orgogliosa di lavorare con loro. La sera, le dita mi facevano male. Vesciche: scoprivo con stupore che era duro, il lavoro nei campi. Poi quelle donne al tramonto, sedute davanti a casa di fronte alle montagne, come nonne mi raccontavano storie. Giuditta, Emma, Rachele, vi vedo ancora. (Ma dove siete tutti, adesso, voi, occhi buoni chini su me bambina?) Il mare d’erba davanti a me oggi ondeggia in un fruscio appena percepibile. Dove siete andati, tutti? Mi avete abbandonata.
Oppure, forse? Siete così vicini, così profondamente dentro di me che non vi vedo.
Siete qui ancora, e la tenerezza con cui mi sentivo guardata da voi ora mi sbalordisce e contagia. “Ti ricordi com’eri?” Un dono: per un istante, di nuovo limpida come quella bambina dentro al mare d’erba.
Poi, rapidissimo, il cielo si oscura e tuona, e grandina. Avevano ragione i montanari a raccogliere il fieno in fretta, stamattina: saggi come le nonne ampezzane che conoscevano i segni della tempesta vicina, nella sapienza che noi abbiamo perduto.
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