I giganti del digitale devono o no pagare gli editori? Messa così, la questione sembra tutto sommato semplice. Tanto più, penseranno alcuni di voi, che se la domanda è posta da un giornale la risposta è scontata. Ovviamente tutti gli editori vogliono che Facebook, Google e gli altri giganti digitali paghino, ma non tanto e non solo perché in Rete milioni di persone consumano gratis informazioni, quanto perché le piattaforme lucrano fette di pubblicità su quei contenuti, guadagnando cifre importanti.
A ben vedere questa non è solo una sfida tra due schieramenti, ma riguarda ognuno di noi. Perché, anche se una parte dell'editoria è stata ed è nelle mani di grandi gruppi, l'informazione (anzi, il fare informazione) ha anche un preciso ruolo sociale ed è un pilastro della democrazia. E liquidare il tutto con un «i giornali se la sono voluta, per anni hanno regalato le notizie» (oppure: «ormai sono superati») è una posizione che non tiene conto della complessità del tema. Perché è vero che i giornali (alcuni più di altri) hanno regalato per anni informazione, ma è altrettanto vero che l'hanno fatto tutti a livello mondiale perché quella di sostenere l'editoria sul digitale solo con gli introiti pubblicitari sembrava l'unica strada possibile.
C'è poi un altro punto importante: se una società guadagna anche utilizzando contenuti di un altro soggetto, deve o no riconoscergli una parte dei profitti? Per rispondere non servono ragionamenti complessi, credo basti il buonsenso.
La questione, come accennato, è però complessa. Perché, anche se non vogliono ammetterlo, le piattaforme hanno bisogno dell'informazione di qualità per aumentare la propria credibilità. E poi c'è il fatto che la posizione dei giganti digitali varia da piattaforma a piattaforma e da Nazione a Nazione. Prendete Facebook. Nelle ultime ore ha deciso di bloccare sul suo social la condivisione delle notizie australiane, per protestare contro un disegno di legge del governo di Canberra che punta a obbligare i giganti del web (Google, Amazon, Facebook ed Apple su tutti) a pagare gli editori per i contenuti che producono. Facebook vuole così dimostrare quanto vale il suo traffico social che arriva ai siti dei giornali, ribadendo che quindi di fatto la sua piattaforma fa già guadagnare gli editori. In America, però, la stessa Facebook ha chiuso accordi importanti con gli editori per dare vita al nuovo servizio Facebook News. Tra i nomi coinvolti spiccano Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, BuzzFeed, Business Insider. In tutto le testate sarebbero circa 200.
Dal canto suo Google, dopo un duro braccio di ferro con gli editori, ha chiuso in Francia un accordo con Le Monde, Le Figaro, Libération, e L'Express, ma solo dopo che l'Authority per la concorrenza e la Corte d'appello di Parigi gli hanno ingiunto di accordarsi, pena l'esclusione dal territorio francese. Sempre Google ha chiuso ieri un accordo triennale con News Corp, il gruppo editoriale fondato dal magnate australiano Rupert Murdoch, nel quale si impegna a «pagamenti significativi» e ad aiuti anche tecnologici. Tra i giornali coinvolti ci sono gli americani Wall Street Journal e New York Post e gli inglesi The Times, The Sunday Times e The Sun. Apple dal canto suo prosegue con Apple News+, una sorta di Netflix delle notizie che offre articoli di centinaia di testate in cambio di un abbonamento mensile e che paga gli editori in base a quanto vengono letti.
Anche se la partita da noi è ancora aperta, è facile prevedere che, alla fine, si troverà una forma di accordo. Ma sul campo resterà una domanda importante: come faranno sistemi che premiano soprattutto i grandi giornali a garantire anche le altre testate? Cosa accadrà, per esempio, alle tante voci anche locali del mondo cattolico che faticano a farsi strada nel digitale?
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