Giovedì scorso, durante la Messa mattutina a Santa Marta, papa Francesco ha parlato di radici. Del rapporto, cioè, che ogni persona inevitabilmente mantiene con la propria origine, e ribadendo che «una persona senza radici, che ha dimenticato le proprie radici, è ammalata». Sì, ammalata, perché si parla di qualcosa di viscerale; e, se per qualsivoglia ragione manca, allora bisogna «ritrovare, riscoprire le proprie radici e prendere la forza per andare avanti, la forza per dare frutto e, come dice il poeta, "la forza per fiorire perché quello che l'albero ha di fiorito viene da quello che ha di sotterrato". Proprio quel rapporto tra la radice e il bene che noi possiamo fare». Che non è sempre facile perché, ha spiegato, «ci sono difficoltà»: «Le resistenze sono di quelli che preferiscono l'esilio, e quando non c'è l'esilio fisico, l'esilio psicologico: l'auto-esilio dalla comunità, dalla società, quelli che preferiscono essere popolo sradicato, senza radici. Dobbiamo pensare a questa malattia dell'auto-esilio psicologico: fa tanto male. Ci toglie le radici. Ci toglie l'appartenenza».
Un rapporto viscerale, si diceva, quello con le proprie radici. E che ovviamente, anche se spesso non ci si pensa, o ci si pensa in maniera superficiale, riguarda anche i Papi. È vero, se non ci si pensa spesso forse è perché per secoli siamo stati abituati a pensare al papato come a una cosa tutta "italiana", e il resto finisce facilmente per essere archiviato come folklore. Ma qualcuno può oggi pensare al pontificato di Giovanni Paolo II se non a partire dalle sue origini, dalle sue radici polacche? E potrebbe fare lo stesso con Benedetto XVI, ossia prescindere dal suo essere tedesco, radice che egli stesso tanto drammaticamente sottolineò nel suo commovente discorso ad Auschwitz nel 2006? «Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile, ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania... Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui (papa Wojtyla, ndr): "Non potevo non venire qui". Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco...».
Oggi con Francesco ancora una volta ci troviamo di fronte un Papa che delle sue radici non solo è consapevole ma ne ha fatto un suo tratto distintivo. Attenzione, però, a non cadere nell'errore di ridurre il tutto a una vaga identità latinoamericana, o a una maschera grottesca. Perché, casomai, è vero il contrario, e spiega molte cose. Ha scritto padre Antonio Spadaro, direttore di La Civiltà Cattolica, proprio a riguardo dell'origine latinoamericana del Papa: «Bergoglio postula una vera ermeneutica popolare tutta da sviluppare, una maniera di vedere la realtà e una coscienza storica. Qui c'è il nucleo del discorso: ben consapevole della "crisi" del centro, dell'Occidente cioè, e delle sue radici, Bergoglio con le sue parole e i suoi gesti sta ponendo in atto un processo spirituale e culturale che destabilizza quella stessa crisi, liberando energie sopite. E tutto questo vivendo un'estrema semplicità di stile e di contenuto. Ma in Bergoglio la semplicità non è mai ingenuità... Il senso di terremoto, di scuotimento, persino di "confusione" che qualcuno avverte è il frutto di questa azione culturale e spirituale (e simbolica) di disincagliamento».
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