mercoledì 18 maggio 2022
Ettore se n'è andato. Avrebbe compiuto quindici anni domani, una bella età per un bassotto, senz'altro, ma la morte di un cane di famiglia è sempre un trauma. Non faccio paragoni, per carità, non se ne possono fare. Ma non si può nemmeno fare spallucce e dire: "Va be', ma in fondo era solo un cane". Non si può proprio. Il nostro bassotto – di nome Ettore in onore, credo, dell'eroe troiano, ma chiamato anche "Babetti" (non chiedetemi perché, lo sanno solo le mie figlie) – stava con noi da quando era nato. Del combattente di cui portava il nome non aveva nulla. A meno di non considerare eroica la sua capacità di ingurgitare, con sommo sprezzo del pericolo, carta sporca e qualunque tipo di cibo, dagli antipasti al dolce. Cioccolata compresa, che per un cane è veleno ma evidentemente, abituatosi a rubarla fin da piccolo, s'era mitridatizzato.
Sei anni fa, molto prima che mi fosse ufficialmente diagnosticata la Sla, era stato il primo a capire che i disturbi che avevo erano roba seria. E mano a mano che la malattia progrediva mi stava letteralmente attaccato, mi seguiva dovunque andassi, dormiva quasi sempre sotto al mio letto. Nell'ultimo anno spesso si incastrava tra i mille cavi che alimentano le macchine che mi tengono vivo, e liberarlo era un problema. Capiva quali persone mi volevano bene e quali no. Una operatrice sanitaria che mi ha assistito per qualche mese aveva l'abitudine di lasciare molto spesso la mia stanza. Ettore ogni volta le andava dietro e – lui era il cane più pacifico del mondo – le abbaiava contro finché non tornava al suo posto. Quando veniva qualcuno a visitarmi arrivava a controllare che tutto stesse in ordine. Mi proteggeva, insomma.
Lo scorso febbraio a un certo punto iniziò a non camminare più, a non mangiare, non voleva più uscire. Il veterinario disse che era grave, che aveva un tumore alla milza. Forse un'operazione lo avrebbe potuto salvare, con un po' di fortuna. Quando tornò a casa senza più pelo sulla pancia perché lo avevano dovuto tosare prima di aprirlo sembrava rinato, e la prima cosa che fece fu di infilarsi sotto al mio letto. Mi teneva compagnia. Tanta compagnia. E sentirlo là sotto mi faceva sentire bene. In qualche modo eravamo quasi in simbiosi. Quando lo scorso fine settimana è tornato a stare male, a non avere la forza nemmeno di bere, nemmeno di alzarsi in piedi, a respirare a fatica, abbiamo tutti capito che era arrivato al capolinea. Quando è morto, due giorni dopo, ho pianto. Abbiamo pianto tutti. Ma in silenzio, senza farcene accorgerne. Magari è andato avanti per controllare che tutto sia in ordine per quando arriverò io.
(73-Avvenire.it/Rubriche/Slalom)
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