Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.
È morto lo scorso 17 maggio, dopo una vita dedicata all'impegno politico e al rigore morale e intellettuale, in coerenza con la sua visione della storia. Intendo parlare di Luigi Pintor, giornalista e uomo politico comunista. Forse si stupirebbe lui stesso di vedersi citato e ricordato da un sacerdote in una rubrica di taglio spirituale. Non l'ho conosciuto né incontrato, ma un amico comune mi ha sempre parlato di lui come di una persona di forte moralità e sensibilità, pur nella diversità profonda dell'interpretazione del mondo e della vita. E che questo sia vero emerge proprio dalla bella, intensa e "cristiana" immagine che Pintor ha lasciato nel volume Servabo (ed. Bollati Boringhieri) dal quale l'ho estratta e proposta per la nostra riflessione.
Una scelta di vita che è tutta in quel "chinarsi" perché chi è a terra, debole e ferito, possa cingerti il collo e, così, rimettersi in piedi e ritornare a percorrere la strada della vita.
È il gesto del buon Samaritano della celebre parabola di Gesù, un uomo che non era un ebreo, anzi era considerato un eterodosso e un estraneo alla comunità dell'elezione e che Cristo trasforma in un esempio non solo per i fedeli ebrei ma anche per i loro sacerdoti e leviti. Un gesto che dovrebbe essere nel cuore della vera politica: essa dovrebbe rendere regola comune l'aiuto reciproco, assicurando non il primato agli interessi privati ma alla tutela e al sostegno degli ultimi e dei deboli. Un gesto, questo del chinarsi, che è stato emblematico per una teoria immensa di santi e che dovrebbe essere la gloria del cristiano, tentato invece troppo spesso - come gli altri attori della parabola lucana - di «passar oltre, dall'altra parte», impettito e infastidito dal grido del sofferente, dal suo odore e dai suoi cenci sporchi.
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