«Ogni tanto sento bisogno di salpare, partire in mare», afferma Ismaele, il narratore in Moby-Dick, capolavoro di Herman Melville.Molti hanno un'idea sbagliata su chi si allontana dal suo luogo per cercare nuovi orizzonti. La mia generazione ha conosciuto, negli anni Sessanta, chi partiva per un indeterminato e generico Oriente, alla ricerca di se stesso. Sovente si trattava di un'evasione, una fuga dalla realtà, dall'hic et nunc. Ma la condanna a priori di questa fuga è limitata, frutto di paura del diverso. Il desiderio di fuggire verso nuovi e sconfinati orizzonti nasce da una percezione concreta e sana del nostro essere: sete d'infinito. L'uomo ha bisogno di uscire di sé, salpare, cercare qualcosa altrove. Questa esperienza può essere compiuta con un viaggio fisico (missionari, esploratori, astronauti), o con un' uscita da se stessi necessaria, per la nostra salute, ogni giorno. Il centro di noi stessi è in noi, ma se arroccato nelle proprie mura spegne ogni spirito di conoscenza e avventura. Salpare verso l'ignoto, andar per mare, come esprime Ismaele, significa cercare il senso ultimo di noi stessi. Che non è nell'altro, ma nel nostro confronto con l'altro. Che ha un centro esattamente come lo abbiamo noi. Non arroccarsi, non chiudersi, vuol dire tradurre, comprendere, andare incontro.
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