Ci pensavo l'11 settembre, rivedendo la tremenda immagine del "falling man", uno tra i tanti che a New York si lanciarono dalle Twin Towers in fiamme. Quando si precipita il tempo si dilata in modo sorprendente. Io l'ho provato: 4 metri di volo. In quel mezzo secondo ho pensato, nell'ordine: sto cadendo, probabilmente mi ammazzerò, ho un sacco di cose ancora da fare. Mio figlio? Mio marito? E molto altro. Confermo, la speranza è l'ultima a morire. Lo dice bene Michel Houellebecq in "Serotonina": «Mio Dio, quant'è difficile da sconfiggere la speranza, quant'è tenace e scaltra…». Facevo bene a sperare: giusto un paio di fratturine, qualche angelo passava dalle mie parti. 40 giorni di immobilità a Milano in piena estate, con le valigie già fatte e un caldo infernale. Per fortuna il marito era in fase Masterchef, ha cucinato come un pazzo e mi ha spinto in carrozzina in tutti i posti deserti della città. Ma in un'ideale classifica dei miei momentacci, quei 40 giorni non ci sono. Sapevo che mi sarei rimessa in piedi, e questo conta. Ma il ricordo è curiosamente dolce, come la colonia al bergamotto con cui mi rinfrescavo. Io che porto il mondo in spalla ho dovuto metterlo giù. Qualcuno si è preso cura di me. Gli amici occasionali conosciuti in piscina. Quelli che sono venuti a trovarmi con lo champagne. Le relazioni per noi umani sono tutto, posso giurarvelo. Proprio tutto.
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