La buona educazione consiste nel nascondere quanto bene pensiamo di noi stessi e quanto male degli altri.
Mi ha già aiutato più di una volta a proporre in modo brillante e persino scherzoso un tema di riflessione. Lo fa anche oggi con questo aforisma ironico sulla "buona educazione": è lo scrittore americano Mark Twain (1835-1910), uno pseudonimo desunto dal gergo dei battellieri del Mississippi sul quale trascorse la sua giovinezza (indica la profondità di due braccia dell'alveo). L'idea è certamente venata di pessimismo: le buone maniere sono per il romanziere - che annota questa osservazione nei suoi Taccuini - sostanzialmente inganno e ipocrisia. Bisogna riconoscere che è difficile dargli torto. Non solo in politica o in diplomazia, ma anche nella vita quotidiana, sotto il manto di non poche gentilezze si nasconde disprezzo e superbia, falsità e sarcasmo.
D'altronde è tanto facile e gioioso lasciarci irretire dalla sirena della lode, dell'ammirazione, della stima da perdere il senso della misura e della realtà. Conosco anch'io persone molto intelligenti che di fronte a un'esaltazione del loro io perdono ogni capacità critica. Per questo gli altri sanno già quale strada imboccare per conquistarsele ed esse si lasciano inondare di improbabili celebrazioni. È a tutti utile, comunque, una certa capacità smitizzatrice nei confronti dei luoghi comuni di cui si nutre la cosiddetta "buona educazione". Tuttavia, in finale, una parola bisogna pur dirla sul contrario: ai nostri giorni, infatti, a partire dai dibattiti televisivi, è l'assalto, il duello, la brutalità cavernicola a dominare e almeno un pizzico di decoro, di stile, di rispetto non guasterebbe. Un altro scrittore, il tedesco Heinrich Böll, affermava che "nell'esercizio anche del più umile dei mestieri lo stile è un fatto decisivo" (in Lontano dall'esercito).
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