«Le rovine sono tracce, una categoria astratta che si fonde con gli ideogrammi che le accompagnano. In Cina e in Giappone la transitorietà materiale delle rovine non contrasta con l'idea di permanenza perché l'atto di restaurare prevale su ciò che è restaurato». Così scrive Giuseppe Barbanera confrontando le diverse interpretazioni che le civiltà hanno dato a ciò che resta delle vestigia del loro passato. Si deve all'Oriente antico, specie a quello Vicino, tra la Mesopotamia e l'Egitto, l'idea di dare autorità ai monarchi, di conferirgli un legittimo fondamento, con l'utilizzo di monumenti riferiti a chi li ha preceduti. I resti nudi e crudi del passato, però, quelli che non sono ancora stati sostituiti dal "restaurato", sono sovente latori di provocazione più che ragioni d'orgoglio, autentiche scuole di futuro per chi li guarda: «Molte genti passeranno vicino a questa città e si chiederanno: Perché il Signore ha trattato in questo modo una città così grande?» dice Geremia a proposito delle rovine di Gerusalemme. Lasciando nudo l'atto del restauro, aperte le brecce sul corpo del presente, senza un velo di motivazione plausibile a renderlo museo, i profeti consegnano ai posteri la responsabilità di far risorgere le rovine umane.
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