Nei villaggi africani molto spesso non c’è ancora luce elettrica: si va a dormire al calare del sole. L’acqua viene presa dai pozzi. Non esistono impianti idraulici come li intendiamo noi. I servizi sanitari sono presenti solo nelle grandi città. Il cibo è quasi sempre riso e pollo: le famiglie mangiano sedute intorno a un grande piatto usando le mani. Le scuole hanno aule in terra battuta: gli animali, in particolare le mucche, talvolta entrano durante le lezioni e i piccoli alunni si alzano dal banco e, come se niente fosse, li guidano tranquilli verso l’uscita. Basterebbe trascorrere un solo giorno in tali condizioni per comprendere la vera motivazione che spinge tanti giovani a emigrare. Ho visto e vissuto tutto questo coi miei occhi a Sare Gubu, poche case di paglia, solo qualcuna in muratura, in Gambia, una striscia di terra sull’Atlantico. Eppure, nonostante la povertà e la miseria, le emozioni che provai stando insieme alle persone che ci ospitavano me le porto ancora dentro come un tesoro prezioso. La sera pregavamo tutti insieme, in una sorta di ringraziamento collettivo. Io e il mio amico Marco eravamo gli unici bianchi. Alla fine della celebrazione i bambini facevano la fila per salutarci e prima di andarsene si mettevano la mano sul cuore in segno di omaggio nei nostri confronti.
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