Ci sono cose che tutti dovremmo guardare. Come il video da Gaza passato giorni fa anche su Avvenire web. Quello con una bambina palestinese bionda, sui sei anni, spettinata e stanca, che porta sulle spalle una sorellina. La strada è piena di polvere, attorno non c’è nessuno, la bambina procede a fatica. Un’auto si ferma, un uomo chiede alla bambina dove va. A fare curare mia sorella, risponde lei. Vuoi un passaggio? dice l’uomo. La piccola fa per salire nel bagagliaio, come fosse un cane. L’uomo apre la portiera. La sorellina avrà due anni, bella come la maggiore. Due minuti, le bambine sono arrivate. La più grande scende senza neanche voltarsi, tesa a trovare qualcuno che le badi.Sembra la scena di uno di quei film post apocalittici che anni fa andavano molto. Adesso meno, forse perché l’apocalisse non sembra più così impossibile. Oppure l’apocalisse è già lì, a Gaza, nelle facce di due bambine, a un anno dal 7 ottobre, dopo quasi 100 mila morti.
Mi pare già di sentire le obiezioni: e i morti, i torturati, le donne violentate, i rapiti e mai ritornati di quei kibbutz? Lei parla dei palestinesi, e gli altri, le famiglie israeliane, un anno fa? Devo dirlo, non reggo più questo continuo rimpallarsi di colpe e di ferocia. La consapevolezza di ciò che è accaduto il 7 ottobre un anno fa mi ha tolto il fiato: non il male, ma il Male in persona è sbucato dalla terra, quella notte. Adesso mi toglie il fiato, e credo lo tolga anche a molti israeliani, l’annichilimento di Gaza. Che un Paese democratico come Israele possa fare questo, sgomenta. E ancora fra noi – benché in realtà se ne parli molto meno, come ci fossimo abituati – scoppia lo scontro fra i pro Israele e i pro palestinesi. Quasi in un derby. Divampano sui social gli insulti: e ciascuno ha ragione, tutti hanno ragione. Ti spiegano che Israele sta difendendo l’Occidente contro l’attacco islamico, e ce la può fare solo annientando Hamas e Hezbollah. Ascolto, ma ciò che proprio non mi riesce di capire è come si può illudersi di eradicare un nemico, uccidendolo sotto agli occhi dei suoi figli. In questo modo l’odio non finirà mai, si perpetuerà nelle generazioni. Mi sembra così evidente. Invece, continuano.I numeri, le file di zeri non ci dicono più niente. Ma la faccia di quella bambina di Gaza, almeno fermiamoci a guardarla. Esattamente come avremmo dovuto guardare, se qualcuno l’avesse fotografata, gli occhi di una bambina ebrea, la notte del 7 ottobre, strappata alla madre e uccisa davanti a lei, insieme a cento altre. Basta, vorrei dire ascoltando chi continua a addossarsi reciprocamente le colpe, basta, per pietà. Potessimo vedere tutto: le madri israeliane che vedono partire un figlio di vent’anni, e quelle di Gaza, chine su fagotti bianchi immobili.
Le fosse comuni dove gli uomini sono soltanto carne ormai, materia (Simone Weil: “La morte, che riduce gli uomini a cose”).
La fame dei figli di quelli che a Gaza si buttano davanti a un Tir di aiuti, perché si fermi. Il cuore delle madri degli ostaggi israeliani, che non sanno se l’assassinato di oggi è il loro ragazzo. E i profughi libanesi, che spesso erano già fuggiti dalla Siria, incalzati dalla guerra come da una personale maledizione.Potessimo vedere tutto, con uno sguardo dall’alto eppure vicino, come quello dell’Angelo di Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino. Potessimo vedere tutto questo male, non lo sopporteremmo, fuggiremmo. Almeno avessimo però la cognizione del dolore. Di quanto dolore è sgorgato come dagli inferi in un anno di guerra, sulle rive del Mediterraneo, il mare delle nostre estati. Nella cognizione di una simile mole di dolore forse taceremmo, infine. In un silenzio umile e disarmato da cui può nascere, come un miracolo, un timido germe di pietà.