martedì 27 luglio 2021
«Ho la fede. Niente nelle mie convinzioni mi ragguaglia sull'aldilà, semplice coltivo la fiducia. Fiducia nel mistero che ci fa esistere. Fiducia nella vita. Fiducia nella morte. La vita è stata una bella sorpresa, la morte sarà una bella sorpresa. Di che genere? Non ne ho idea». Quando sperimenta il dolore della morte della madre Jeannine, lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt scrive un diario della sua elaborazione del lutto per la dipartita di una figura così centrale per la sua vita. E nelle riflessioni che intessono Diario di un amore perduto (e/o) sono frequenti i riferimenti alla fede cristiana alla quale l'autore ha aderito dopo una fulminea conversione nel deserto del Sahara e una successiva adesione a Cristo susseguente alla lettura dei Vangeli, fino ad allora mai consultati. E così la fede si scontra con la morte. È naturale: quale esperienza umana è più radicale della morte? Quale altro momento chiama in causa i fondamenti stessi del nostro vivere? Nel suo caso Schmitt alla parola fede preferisce il termine fiducia: è uno slittamento lessicale che può farci bene. Cosa c'è di più bello e consolante di avere fiducia di qualcuno e di sentire che qualcuno ha fiducia in noi? Aver fiducia nella vita è un compito e una vocazione che ci eleva sopra il tran tran del quieto vivere.
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