Autoritratti come paesaggi nelle fotografie dei detenuti
venerdì 7 giugno 2024
Noi pensiamo (e sempre troppo poco ci pensiamo) alle persone che vivono recluse nelle prigioni come a individui i cui sguardi sono opachi, costretti, mai ampi, né resi ampi da stimoli, occasioni, incontri. Riflettere su quegli sguardi ci aiuterebbe a immaginare la vita nelle carceri, per come essa si svolge ogni giorno, isolata, ripetitiva, fatta di soli silenzi e contorti rapporti con sé stessi e giusto a tratti con altri – gli altri detenuti. Pensare a come guarda e osserva chi in prigione vive magari per sempre sarebbe cruciale in una prospettiva che invece quasi del tutto manca alla visuale comune, condivisa dalla società; non fosse per singole iniziative che restano isolate e poco considerate, come piccole grandi
indicazioni e possibili rivoluzioni. In Umbria, nella casa di reclusione di Orvieto, la fotografa Manuela Cannone ha realizzato per diversi mesi del 2023 un laboratorio con detenuti condannati a pene definitive, e con loro ha lavorato sul tema dell’autoritratto. Risultato è una mostra (in allestimento al Palazzo dei Sette di Orvieto ancora per qualche giorno) in cui sono esposti scatti di toccante, impressionante bellezza. Guidati dalla sapienza della fotografa, ispirati dalle sue suggestioni (per mesi ha proposto e fatto guardare una messe di lavori di grandi fotografi su singoli temi), provvisti di due macchine fotografiche da lei messe loro in mano, i detenuti (quindici uomini) hanno realizzato un piccolo capolavoro. Il percorso, progressivo, è stato orientato verso l’autoritratto, ma partendo da altri presupposti. Il paesaggio per primo: paesaggi esterni che in carcere mancano, e prima ancora, l’essere paesaggi a sé stessi (“se aprissimo le persone, dentro troveremmo dei paesaggi” diceva la regista Agnès Varda, un’idea che è stata faro per il lavoro laboratoriale di Manuela Cannone). Su sfondi scuri i volti ci si mostrano in una nudità che sferza, per come è autentica. Gli sguardi sono assorti, o meditabondi, o severi, o terribilmente tristi nel mentre i detenuti guardano sé stessi nelle pose che hanno scelto di tenere – e intanto è come guardassero anche noi, dicendoci tutta la violenza del nostro non voler guardare, né loro, né altro. Bellissimi anche gli scatti in cui raccontano dei loro cari, le persone che sono “fuori”, icone destinatarie di una quotidiana nostalgia che non trova cura. Fidanzate o compagne, figli bambini o già ragazzini. Le foto di quei cari ognuno le solleva in alto, sino a farsene coprire la faccia. Poi, ciascuno appoggiato all’unico albero che campeggia in mezzo al cemento del cortile della prigione, ecco di nuovo i quindici autoritrarsi. La natura manca, e cercarla – e trovarla – in piccoli interstizi è come trovare una nuova versione di sé stessi. Natura e autoritratto viatici di nuove definizioni: come quando un giorno, aveva appena incominciato a piovere, di nuovo nel cortile i quindici si sono fotografati. Stupore, meraviglia nei loro volti per un istante sgombri di ogni tristezza. “La luce quel giorno era caravaggesca”, è ancora la fotografa a raccontare, “e a loro che sono in carcere per causa della loro parte scura è stato importante chiedere cosa sia la luce”. Luminosa esperienza, luminosa iniziativa, luminosissima mostra (da non perdere). Per dire a tutti noi, senza discriminazione, che in quegli sguardi “dentro” sta racchiuso tutto il fuori: e annidata vi è una profondità che parla a noi, perché parla anche di noi. © riproduzione riservata
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