D'estate siamo tutti Sherazade. Ci attardiamo in conversazioni che si allungano, senza cronometro né fretta di smettere, abbacinate dall'apparente mancanza di uno scopo, e che non hanno richiesto, com'è normale in altre stagioni, una ragione, un luogo e un tempo prefissati. Conversazioni che sono, nella loro quasi leggerezza, una sorta di navigazione senza rotta, ma durante le quali con maggior rapidità, e non di rado in modi per noi stessi sorprendenti, ritroviamo noi stessi. Non so se è un privilegio dei sentieri nell'arsura, se sono i suoi giorni più lunghi e le incombenze più brevi, o se è la limpidezza della spiaggia e la frescura riparata della veranda che, di colpo, ci permettono di raccontarci gli uni agli altri, d'improvviso capaci di evocazioni, racconti e confidenze.
D'estate ci rendiamo finalmente conto di avere una storia, che si declina in una pluralità di piccole storie, nell'intreccio di sentimenti, di cose vissute oppure no, assaporate con entusiasmo o masticate con sofferenza, ma che sono divenute inseparabili da noi. Ma allora non siamo afasici come supponevamo mentre addizionavamo vorticosamente esperienze, ma senza mai niente da dire, sottraendoci all'argomento di conversazione - quando l'argomento è la vita. Ma allora siamo capaci di presenza. È bene che l'estate rimanga così, con il suo non so che di improvvisato e frugale: in questo modo veniamo aiutati a dar valore a ciò che è davvero importante.
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