Ci sono momenti, nella vita, in cui sentiamo di "andare indietro". Questa specie di inversione di marcia batte alla nostra porta, in molti casi, per un dolore, per l'inattesa novità di una malattia o di un lutto, per il tonfo sordo di un insuccesso o di una contrarietà che ci lascia indifesi e che non ci aspettavamo. S'impadronisce di noi quando, malgrado tutti gli sforzi e gli investimenti fatti, un determinato proposito si rivela irraggiungibile, o sterile, ed è associato a un prezzo di sofferenza che richiede una resilienza più grande delle forze di cui noi disponiamo in quel momento. "Andare indietro" ci fa di colpo percepire la realtà toccataci in sorte come uno strano puzzle senza incastri possibili. E la verità è che, in certe tappe, dobbiamo accettare che l'esistenza è anche mancanza di incastri, un aspro enigma cui non possiamo rinunciare; che dobbiamo, anzi, imparare ad abbracciare con speranza.
Pensavamo che la vita si risolvesse in un certo modo e invece no, si muove in altre direzioni. Alla fine del processo ci accorgeremo che anche "andare indietro", con tutte le convulsioni e la sofferenza che comporta, ci avrà umanizzato. È come se la vita volesse dirci cose che ancora non avevamo udito. Ricordo i versi di un'autrice portoghese, Adília Lopes: «Nella vita e nella poesia/ fare meno di un passo». Forse l'infinito si palesa più nell'umile e silenzioso passo indietro che la vita disegna, che non nella falcata risoluta di chi tira sempre innanzi.
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