La sperimentazione del voto elettronico sembra destinata a slittare nel 2023. La norma sul rinvio era contenuta nella bozza di decreto sull'election day che compariva nell'ordine del giorno dell'ultimo Consiglio dei ministri. Il decreto non è stato esaminato in quell'occasione a causa dell'assenza del ministro dell'Interno, ma la motivazione indicata nella bozza («in considerazione della situazione politica internazionale e dei correlati rischi connessi alla cybersicurezza») è tale rendere improbabile un ripensamento dell'ultim'ora nella prossima riunione del Consiglio.
Un piccolo precedente di voto tecnologico a rigore già c'è: nel 2017, infatti, in Lombardia furono utilizzati 24 mila tablet comprati appositamente dalla Regione per il referendum consultivo sull'autonomia. L'esperimento, a onor di cronaca, non andò proprio nel migliore dei modi per tutta una serie di problemi tecnici, ma bisogna riconoscere che si trattava di un tentativo veramente pionieristico per il nostro Paese. E poi prevedeva comunque la presenza degli elettori nei seggi. I tablet, in pratica, sostituivano la scheda cartacea. La sperimentazione delineata nel luglio 2021 da un decreto a firma dei ministri Colao e Lamorgese si rivolge invece a chi è lontano dal Comune in cui dovrebbe votare. In sostanza italiani all'estero e fuori sede per motivi di studio, lavoro o cure mediche, una platea potenziale di circa 7 milioni e mezzo di elettori. Il decreto contemplava come primo passaggio una simulazione priva di valore legale su un campione significativo per testare in concreto il funzionamento del sistema. Ma se ne riparlerà il prossimo anno.
Il rinvio per motivi di cybersicurezza mette in evidenza la delicatezza di un tema che chiama in causa aspetti di stringente rilevanza costituzionale, a cominciare dalla segretezza e uguaglianza del voto. C'è anche da riflettere attentamente sulle implicazioni in termini di comportamenti collettivi. Il "rito" sociale delle elezioni nei seggi non è un formalismo inutile e l'esperienza della pandemia dovrebbe averci insegnato come la dimensione comunitaria e relazionale non possa mai essere del tutto surrogata dall'impiego delle tecnologie, anche le più sofisticate. La stessa esperienza pandemica, però, ci deve indurre ad affrontare per tempo il nodo della partecipazione al voto anche in forme alternative a quelle tradizionali. Non solo in caso di emergenza, ma per cercare di ridurre quel fenomeno che è stato definito "astensionismo involontario": il non voto dovuto a difficoltà logistiche e non a una scelta deliberata. Una questione che riguarda potenzialmente circa 9 milioni di elettori. Ad aver acceso i riflettori sul fenomeno è stata la commissione Bassanini (nata su iniziativa del ministro per i Rapporti con il parlamento D'Incà) che nel recente "libro bianco" sull'astensionismo ha individuato anche alcune proposte operative, come la tessera elettorale digitale e la possibilità di votare in tempi diversi negli uffici postali. È una pista di grande interesse e che merita di essere seguita. Ma non illudiamoci: il problema dell'astensionismo crescente non si può risolvere alla radice né con le tecnologie digitali né con i sistemi elettorali, che pure hanno una grande importanza. È soprattutto un problema di qualità dell'offerta politica e questa non la si può decidere per decreto.
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