Il retrogusto sciapo delle minestre riscaldate nel calcio è lì, che bolle sempre nel pentolone acceso della Serie A. Siamo alla quarta di campionato e sarebbe da Italici piangenti, cito opera di Gaio Fratini, cominciare con i peana dei potenziali peones di questo avvio di stagione. Però, discutere dell'odore di bruciaticchio che emana da quella pentolaccia di minestrone Max riscodellatto dalla Juventus ci sta. Perché non è neanche minestra calda o caciucco alla livornese, ma un piatto freddo rispetto a quello che ha visto il conte Max Allegri servire alla tavola di Andrea Agnelli cinque scudetti di fila, conditi da due finali di Champions, perse, ma comunque accese. E la prima, nel 2015, con il Barcellona anche ben giocata. Sei anni fa, a Berlino, quella finale la rimise in piedi Alvaro Morata: suo il gol del momentaneo pareggio, poi finì 3-1 per la ex banda Messi. Morata, eterno pupillo di Allegri, è l'uomo al quale il mister di ritorno ha ridato in mano le chiavi dell'attacco bianconero. E lo spagnolo, con la maturità dei 28 anni è l'unico che lo sta ripagando, almeno con i gol, 2 in campionato e 1 in Champions, quasi in fotocopia: “scavino” al Malmö in Coppa e domenica sera al Milan. Partita quest'ultima, che ha fatto sentire ancora più intenso l'odore di bruciato, per le frenate a vuoto nelle discese ardite e le risalite a cui è stato costretto lo stesso Morata, ma anche Dybala e Chiesa. Attaccanti condannati a diventare difensori a sostegno (stile Mandzukic, l'ex factotum di campo di mister Allegri) delle vecchie colonne di ercole Bonucci e Chiellini per evitare che la scapigliatura milanista passasse allo Stadium. Juve-Milan è finita con un brodino, 1-1, risultato che certifica la peggior falsa partenza dei bianconeri negli ultimi sessant'anni. Solo 2 miserevoli punti, con due sconfitte, di cui una in casa con l'Empoli appena strapazzato al Castellani dalla Samp e l'altra al San Paolo con il Napoli, per un autorete suicida di Kean, sempre più attento alla cura delle bionde treccine che agli schemi offensivi studiati in settimana. Allegri sotto accusa anche per i «200 milioni lasciati in panchina» con il Milan e c'è chi inizia a dargli del “Pirlo”. Noi, lo abbiamo sempre stimato e condiviso a pieno per la sua filosofia spicciola, secondo cui «il calcio è molto semplice», ma in questo avvio di stagione le sminestrate del conte Max ci sembrano piuttosto sempliciotte. Disponibili per una pronta smentita. Smentiti immediatamente invece gli euforici estimatori della Roma di José Mourinho, i quali pensavano fosse già una creatura imbattibile dal momento che è passata nelle mani del Mago di Setùbal. A onor del vero, prima della trasferta nella fatal Verona (Hellas-Roma 3-2) lo scaltro Mou aveva gettato acqua fredda sul pentolone giallorosso: «Cinque vittorie non sono cinquanta vittorie». Una sconfitta non sono mica dieci ko di fila, però un tecnico come Mourinho, che a 58 anni ha guadagnato, da solo, il corrispettivo dell'intero pil del Burkina Faso, che ha vinto tutto e proprio qui da noi ha compiuto il suo capolavoro, unico e irripetibile – il Triplete del 2009-2010 con l'Inter di Moratti junior – che cosa può chiedere o dare ancora a questo calcio? La nemesi, Mourinho l'Helenio Herrera del terzo millennio, forse non è solo una suggestione. Quando il “Mago” H.H passò alla Roma, dopo i suoi capolavori (scudetti e Coppe Campioni) realizzati all'Inter di Moratti senior, lo fece solo per soldi, tanti. Rimase sulla panchina giallorossa dal 1968 al '73, ma vinse appena due «tituli», una Coppa Italia e un Anglo-Italiana. Sotto il Cupolone Herrera lasciò qualche buon ricordo certo, ma anche qualche coronaria che lo costrinse a uno stop di sei anni, fino al canto del cigno a Rimini, in B. Anche lo “Specialone”, pur stimandolo, pare tanto un abbacchio riscaldato per la mensa di noi italici piangenti.
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