Certi giorni, quando penso a qualcosa che non capisco, o che pesa sul cuore, dico a me stessa: "Devo parlarne con Fabio…" Poi mi ricordo che don Fabio non c'è più. Allora è come se, non vedendo un gradino, stessi per perdere l'equilibrio. Quante volte per trent'anni quella strada, piazzale Maciachini, i binari del tram 4, Niguarda… Lui c'era sempre dietro la sua scrivania, la faccia severa. Un montanaro della Valtellina. Una roccia, cui mi ero ancorata. E non c'è più. Quella sua stanza, immagino, l'hanno ridipinta, la vecchia scrivania rimossa. E i testi di teologia, e tutti i libri di Romano Guardini? Solo la finestra sarà rimasta uguale. (So ancora perfettamente a che ora entra il sole in quella stanza, e con quale inclinazione). Ma lui, non c'è più. E non c'è più Antonio, e nemmeno Luigi. Mio padre, mio fratello, poi, se ne sono andati da tanto. Il fatto, a sessant'anni, è che ti volti, e non hai più nessuno alle spalle. Nessuno che ti guidi, nessuno che ti sgridi, che abbia vissuto molto, e sappia. Come in montagna, quando il percorso non è bene indicato e uno che è salito più in alto ti grida: "Per di qua!"
Alle spalle, nessuno. Adesso il vecchio, la guida, sei tu. Io? Ti domandi, smarrita. Perché dentro sei ancora, lo sai con certezza, la liceale irrequieta che guardava i colombi volare sul cortile della chiesa di San Marco, nell'ora di greco.
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