sabato 4 marzo 2023
Un ritratto è un dialogo, una forma di fronteggiamento tra chi ritrae e il suo soggetto; un contesto dove perché ritratto sia, qualcosa deve riuscire ad andare oltre l’esattezza, oltrepassare l’ideale (solo illusorio) della fedeltà assoluta. Louise Bourgeois fotografata da Annie Leibovitz è una maschera di rughe, il volto in ogni suo lineamento, la pelle in ogni suo poro sono tirati, tesi, stanchi. I capelli fini sono lunghi e ingrigiti, gli zigomi ossuti: tiene davanti a sé la mano aperta, si vedono le dita deformate dal tempo, tutto dell’immagine dice vecchiaia, fierezza dell’invecchiare. E come un’arsura, qualcosa di scarnificato, che è arrivato all’osso e da quel punto di assoluta essenzialità considera ogni cosa. È un ritratto scabro e molto poetico, per come restituisce la tensione di quella inesausta ricerca che da tutta la vita accompagna l’artista, qui scuotendola come lei fosse un albero spazzato sì, ma mai piegato dal vento. Henry Matisse diffidava del ritratto fotografico perché, diceva, troppo aderente al vero e al visibile. «Non nella perfezione sta la verità», argomentava. Eppure ci sono scatti come questo di Annie Leibovitz dove l’occhio arriva a cogliere qualcosa che va molto oltre l’evidenza visibile di un volto. Proprio come fa l’occhio di un pittore. © riproduzione riservata
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