Il figlio maggiore si sposerà. Si discute di una casa da cercare. Io non oso fare la domanda che mi sta a cuore: di figli, ne vorreste? Ma in un lungo viaggio in auto, quando l'asfalto diritto quasi ipnotizza e viene da parlare liberamente, il discorso per caso va sui nomi che si danno oggi ai bambini. «E voi due - dico allora - come lo chiamereste, se arrivasse, un bambino?» chiedo al figlio.
Lui subito, come ci avesse già pensato: «Agostino, credo».
Stringo le mani sul volante. Agostino, è il nome che fra me avevo dato a un fratello minore di Pietro, perso in gravidanza. Non ne parlo da anni. Ma evidentemente ho pronunciato quel nome con i ragazzi, quando erano piccoli, raccontando di un quarto fratello, che non era arrivato. Mi meraviglia che Pietro se ne ricordi. Come in una promessa: mettere al mondo un figlio, che porti il nome del fratello mai nato.
Agostino, penso, guidando ora in silenzio verso Milano. Ciascuno è unico, e, se nascerà, non sarà quel bambino. Eppure è una carezza l'idea di un nipote che si chiami così. Come se il tempo, che a me pare un ladro che deruba e che spoglia, qualche volta restituisse qualcosa. Agostino, mi ripeto quel nome sull'autostrada dritta e vuota, e mi pare di vederlo. Appena nato, rosso in faccia, affamato. Un Agostino, arrivato.
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