«Arrivare fin qui è stato feroce: ho dato la vita, adesso basta». «Non ho mai sentito così male». «Ho sofferto così tanto che la sofferenza ha incominciato a piacermi». «In certi momenti sono arrivato a odiare il mio sport». Parole e versi di Tania Cagnotto, Federica Pellegrini, Fabio Basile, Niccolò Campriani. Una mezza dozzina di medaglie olimpiche dietro parole pesanti come macigni, spesso accompagnate da lacrime balsamiche e liberatorie. Parole, lacrime e dolori simili a quelli di atleti che a Rio, per ragioni diverse, non hanno potuto gareggiare. Come Niccolò Mornati, canottiere con curriculum (non solo sportivo) e statura morale giganteschi, inchiodato da un sistema antidoping in virtù del quale, come lui stesso dice: «Fare l'atleta è diventato un terno al lotto». Una storia umana inattaccabile, frantumata da una percentuale con dieci zeri dopo la virgola di anastrozolo nelle urine che gli ha fatto dire: «Con questa sentenza non si ferisce l'atleta, che dalle sconfitte è abituato a ripartire, ma si uccide l'uomo e i valori per cui ha combattuto in vent'anni di sport pulito». Per un Alex Schwazer, che di dolore e solitudine ha parlato tanto, ci sono decine e decine di storie a lieto fine, ma anche no. Ci sono decine di storie di sofferenza, di ossessioni, di sacrifici, di sudore, di sogni realizzati o mandati in mille pezzi per un punto, per un centesimo di secondo, per il decimale di voto di un giudice. Fra le mille storie di Rio ne scelgo una, didascalica: la finale di salto in lungo maschile. Luvo Manyonga, sudafricano, è in testa con la misura di 8.37. Fra lui e la medaglia d'oro ci sono solo due soli atleti, al loro ultimo tentativo. Parte la rincorsa di Jeffry Henderson che salta 8.38. Gioia e disperazione in 10 millimetri. Manca solo Jarrion Lawson, un texano di ventidue anni che è quarto, ma che all'ultimo tentativo dell'ultima serie piazza il salto della vita. Le immagini non lasciano dubbi: è un balzo che vale la medaglia d'oro. La telecamera indugia sui volti di Manyonga, che due minuti prima aveva la medaglia più preziosa al collo e la vede trasformarsi in bronzo, Henderson che credeva di aver saltato il centimetro più importante della sua carriera senza quasi avere avuto il tempo di sentirsi campione olimpico e, naturalmente, di Lawson, il ragazzino texano che alla sua prima partecipazione ai Giochi aspetta solo che il tabellone elettronico formalizzi la misura per esplodere di gioia. Il tabellone formalizza, eccome: 7.78. Lawson e il suo allenatore intimano ai giudici di non cancellare la traccia sulla sabbia: l'errore di misurazione è evidente a tutti, il suo salto sembra essere di almeno 60 cm più lungo. Poi arrivano le immagini in superslow motion: la mano sinistra di Lawson, nel momento dell'atterraggio, è rimasta dietro e ha sollevato uno sbuffo di sabbia quasi impercettibile all'occhio. Il segno più vicino al punto di stacco è quello che va misurato: 7.78. Henderson impazzisce di felicità, quel centimetro in più lo proietta in cima al Monte Olimpo, là dove stanno gli immortali. Lawson, da virtuale campione olimpico, si ritrova quarto, perché la sua mano sinistra ha graffiato via qualche millimetro di sabbia. Deve essere per questo che ci appassioniamo ai Giochi Olimpici: sono la più efficace metafora della vita.Gioia e dolore vanno costantemente a braccetto e il confine fra successo e sconfitta («I due impostori» della bellissima poesia If di Rudyard Kipling) è così spesso legato all'imprevedibile, all'imponderabile, all'inallenabile. «La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po' di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no, e allora si perde». Questo non l'ha detto un atleta, ma Woody Allen, nel suo film Match Point. E così sia.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: