sabato 9 marzo 2024
Una sera d’inverno, in auto nel traffico delle sei, vicino all’Arena. Piove e l’asfalto luccica, riverberando le luci dei lampioni. In sere come queste mi piace ancora, Milano. A un semaforo lo vedo, senza ombrello, bagnato, imbacuccato in una sciarpa: il mio vecchio amico Antonio, detto Anas. Figlio di calabresi, massiccio, gioviale. Un prete buono. Subito abbasso il finestrino e grido dai, vieni, ti dò un passaggio. Lui contento salta una pozzanghera, spalanca la portiera e pesantemente si siede accanto a me. È tornato il verde, intanto, da dietro suonano: ma ci abbracciamo, per un istante. Cosa fai in giro sotto quest’acqua, domando io, e dove stai andando? Lui si asciuga gli occhiali con un fazzoletto, «Alzi il riscaldamento?» mi chiede, «ho freddo». Fradicio com’è, decido di portarlo fino a casa sua, a Niguarda. E in quei venti minuti rieccoci, noi due, insieme: come sempre. Parliamo di Gaza e di Israele; e poi di noi, dei miei figli. Racconto: guai domestici, gatti di casa allo sbando. Ridiamo. Lui: «Che bello, averti incontrato». Siamo arrivati. Cerco un parcheggio, faccio manovra. Ma come mi volto verso il mio amico, mi ritrovo sola. Soltanto pioggia che batte sull’asfalto. Lui non c’è. Non c’è più, da tempo. È stato solo un sogno. Sembrava così vero. Tocco il sedile accanto: sperando, sciocca, che sia umido, ancora. © riproduzione riservata
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