Si rompono soffitti di cristallo, se ne è parlato molto in questa settimana. È successo, in politica, nel ruolo cui è affidata la guida del Paese, ma che succede nel mondo dello sport? Dopo lo storico esordio di Maria Sole Ferrieri Caputi, prima donna ad arbitrare una partita del campionato di calcio di serie A, sta succedendo qualcosa di importante nel rugby, sport nell’immaginario collettivo considerato molto maschile e dove la nostra nazionale (quella maschile, appunto) ha avuto enorme successo mediatico e grande partecipazione di tifosi, nonostante una sequenza di sconfitte abbastanza impressionante: nel prestigioso torneo “Sei Nazioni” i nostri azzurri contano 13 vittorie, 1 pareggio e 101 sconfitte. L’Italia del rugby femminile, invece, dopo il miglior piazzamento di sempre al “Sei Nazioni” è diventata la prima selezione azzurra a conquistare i quarti di finale in una competizione iridata della palla ovale. Le nostre azzurre, sabato 29 ottobre a Whangarei, affronteranno la Francia, non da favorite, ma avranno la possibilità di scrivere ulteriormente la storia.
Insomma, lo sport al femminile continua a produrre risultati straordinari nelle discipline più diverse, ma c’è un soffitto di cristallo che continua a non cedere: quello della governance dello sport italiano. Gli organismi sportivi italiani, composti da 45 federazioni, 18 discipline associate e 15 enti di promozione sportiva, pur vedendo negli ultimi anni certamente aumentato il numero di donne in posizioni apicali, contano soltanto una donna presidente: Antonella Granata, prima e (unica) Presidente della Federazione Squash. La distonia è evidente e ormai non più sostenibile. I successi e i numeri dello sport femminile confliggono con una rappresentanza quasi inesistente nel ruolo più importante.
Il mondo sportivo è drammaticamente impegnato a sopportare, dopo l’impatto della pandemia, quello del caro energia, ma non si può immaginare uno sport del futuro senza un equilibrio migliore in termini di parità di genere nelle posizioni guida degli organismi sportivi. Ecco perché le mete della nostra nazionale femminile di rugby rappresentano, oltre all’evento sportivo in sé, un fatto tutt’altro che simbolico. Così come tutt’altro che simbolico è il tema del linguaggio che, nello sport, è ancora lontano dal rappresentarlo, quell’equilibrio di genere. Come noto le parole hanno il potere di strutturare la realtà. Oppure di non farlo. «I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo», diceva il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein ed è evidente che le cose (o le idee) che non hanno parole per rappresentarle, non esistono. Lo sport è spesso capace di anticipare temi in grado di cambiare la società. Purtroppo, in questo caso, non è ancora (lo ripeto a scanso di equivoci, non nella produzione di risultati o di partecipazione, ma di governance) all’altezza delle spinte che arrivano da tanti altri settori della nostra società.
Credo sia importante accelerare, anche per il rispetto e l’esemplarità che il nostro Paese dovrebbe dimostrare rispetto ai drammi che nel mondo continuiamo a osservare, come il genocidio delle donne hazara in Afghanistan o dei movimenti femminili che in Iran stanno mettendo nell’angolo un regime fuori dal tempo. I soffitti di cristallo, dunque, si rompono a suon di mete e di parole ben scelte.
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