Il Papa assieme al vescovo Angelo De Donatis, vicario della diocesi di Roma (Ansa)
A Roma serve una «rivoluzione della tenerezza» per combattere fenomeni come «l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale, tipici di tutte le metropoli» e «presenti anche nella Capitale». È la prospettiva indicata dal Papa alla sua diocesi durante l’incontro di questa sera a San Giovanni in Laterano, in conclusione del cammino avviato dalle comunità parrocchiali e dalle prefetture sulle malattie spirituali, cioè sulle schiavitù «che hanno finito con il renderci sterili».
Francesco, nel discorso scritto e nelle risposte a braccio, ha raccomandato a sacerdoti e laici di «ascoltare senza timore il grido che sale dalla nostra gente di Roma». In particolare, bisogna uscire fuori dall’«impressione che la nostra vita sia inutile e come espropriata dalla frenesia delle cose da fare e da un tempo che continuamente ci sfugge tra le mani; espropriata dai rapporti solo utilitaristi e poco gratuiti, dalla paura del futuro; espropriata anche da una fede concepita soltanto come cose da fare e non come una liberazione che ci fa nuovi a ogni passo».
Per questo occorre recuperare la capacità di uscire abbandonando «noi stessi e le nostre pentole», ha aggiunto il vescovo di Roma facendo riferimento al brano biblico della liberazione di Israele dalla schiavitù di Egitto. Le «pentole», in particolare, sono «i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze, che si sono rivelate alla fine autoreferenziali». In sostanza, «ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di sopravvivenza», ha detto il Papa, in relazione a parrocchie «stanche sia di girare a vuoto che di aver perso la strada». «Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate, quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana». Al contrario, ha fatto notare, «vi sto invitando a intraprendere un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare». In fondo anche coloro che non fanno catechismo sanno dare «un senso di fede e di speranza alle esperienze fondamentali della vita».
Giunto puntualmente alle 19 nella Cattedrale di Roma (gremita dai rappresentanti delle parrocchie, dai sacerdoti e dai vescovi ausiliari), il Pontefice è stato accolto dall’arcivescovo vicario per la diocesi, Angelo De Donatis. Quindi, dopo un momento di preghiera, ha ascoltato la sintesi dei lavori pervenuti dalle parrocchie, letta da don Paolo Asolan. Il quale, tra le malattie più segnalate, ha citato «una dimensione sociale tutta da ricostruire (molto è accentrato sull’individuo), un ripiegamento sulla propria comunità (si fa fatica a vedere un orizzonte più ampio, come quello della diocesi), le troppe iniziative pastorali, la mancanza di generatività spirituale, la frenesia e la schiavitù del tempo riempito di cose da fare».
C’è inoltre «un certo analfabetismo affettivo che dipende dalla mancata cura delle relazioni». La pastorale «ridotta a cose da fare genera aridità, i parroci spesso sono ridotti a manager. E infine don Asolan ha citato «lo scandalo dei pastori che provoca disorientamento tra i fedeli».
Il Papa ha quindi risposto a braccio ad alcune domande. «Nessuno può guarire da solo – ha ricordato –. Solo il Signore ci risana in radice». Quindi ha messo in guardia dalla «ansietà delle novità», in sostanza da un certo gnosticismo, che «fa crescere l’individualismo e porta a un Dio senza Cristo, a un Cristo, senza Chiesa e una Chiesa senza popolo». Invece, ha ricordato «è la spiritualità comunitaria che ci guarisce». Così la parrocchia non può essere una somma di iniziative, ma richiede l’armonia dello Spirito Santo. Una parola per i giovani, «che – ha detto – chiedono di essere salvati dalla “droga” dell’alienazione culturale». Essi sono oggi «virtualizzati». «Dobbiamo farli atterrare nel mondo reale e in questo molto può aiutare educarli alle opere di misericordia».
In sostanza la parola d’ordine usata da Francesco è Chiesa in uscita. Cioè «far sì che questo prossimo anno» preluda a «nuove condizioni di vita e di azione pastorale, più rispondenti alla missione e ai bisogni dei romani di questo nostro tempo; più creative e più liberanti anche per i presbiteri e per quanti più direttamente collaborano alla missione e all’edificazione della comunità cristiana». «Non abbiate paura di portare frutto – ha concluso il Papa –, di farvi “mangiare” dalla realtà che incontrerete, anche se questo “lasciarsi mangiare” assomiglia molto a uno sparire, un morire». Magari alcune iniziative cesseranno. Ma altre ne nasceranno di nuove.