Zemmour interviene a un meeting sul ruolo politico della destra - Ansa
Chi si loda s’imbroda, recita l’adagio, confermato dalle gesta dei fanfaroni d’ogni tempo. Ma la massima potrebbe forse servir da monito pure per certe capitali pronte a dirsi paladine dei più alti valori umanistici, specie al momento di criticare i mali presunti di altre nazioni vicine e lontane. In proposito, nel 1981, un giovanissimo filosofo francese destinato a far strada, Bernard-Henri Lévy, pubblicò un libro che andava proprio in questo senso, intitolato L’ideologia francese. Un volume che provocò un putiferio, tanto la tesi centrale pareva provocatoria: nella Francia che da un paio di secoli ama presentarsi come 'culla dei diritti umani', si è invece storicamente annidata la serpe ideologica che ispirò filosoficamente i peggiori nazionalismi europei novecenteschi. «Tutti fascisti!», titolò polemicamente all’epoca persino il compassato Le Monde, pur riconoscendo a Lévy il merito d’aver lanciato un 'monito' potenzialmente salutare.
Ma 40 anni dopo quella memorabile zuffa intellettuale, in vista delle Presidenziali francesi d’aprile che vedono già tanti candidati sui blocchi di partenza – in un turbine vieppiù accelerato di comizi, promesse e alleanze –, i francesi, come nel gioco dell’oca, sembrano costretti a tornare alla casella di partenza: cioè a rimeditare quella scomodissima analisi. Sbalordendo i politologi, a volare sempre più nei sondaggi è un certo Éric Zemmour, 63 anni, finora noto come sulfureo opinionista televisivo e saggista. Un personaggio che ad esempio, nel Paese con la maggiore comunità islamica d’Europa, propone di «vietare i nomi stranieri» all’anagrafe. Un personaggio per il quale, adesso, mostra simpatia pure l’anziano Jean-Marie Le Pen, 'patriarca' dell’ultradestra xenofoba, non solo per i guai giudiziari simili a ripetizione dei due: nel caso di Zemmour, con una condanna per provocazione alla discriminazione razziale (2011) e un’altra più recente per provocazione all’odio religioso contro i musulmani (2018).
Il 'cursus honorum' di Zemmour è segnato, oltre che dalle apparizioni in tv, pure dai saggi sul «declino » o il «suicidio» della Francia a causa dell’immigrazione e delle regole europee. Libri divenuti clamorosi bestseller, ma mai quanto l’ultimo appena sfornato, che pare a tutti un manifesto politico in vista d’una candidatura per l’Eliseo data per scontata. S’intitola La Francia non ha detto l’ultima parola ed è stato rifiutato dall’editore Albin Michel, che aveva invece accettato di pubblicare i 5 precedenti libri di Zemmour. Ma nonostante l’inconveniente d’essere autoeditato, il nuovo pamphlet ha polverizzato i record di vendita dei libri politici. In 6 giorni, circa 79mila copie vendute, secondo fonti concordanti. Una cifra che fa impallidire, ad esempio, i lanci editoriali delle ultime fatiche dell’ex presidente neogollista Nicolas Sarkozy, issatosi fino a circa 30mila copie dopo una settimana.
Già prima della pandemia, le conferenze show di Zemmour con dedica finale riempivano i palazzetti, ma i media non davano troppo peso al fenomeno. Adesso, l’ascesa verticale nei sondaggi preoccupa in primis una certa Marine Le Pen, 53 anni, la leader Rn (Raggruppamento nazionale) in forte calo e ormai superata dal rivale negli ultimi rilevamenti, che addirittura vedono Zemmour già in 'ballottaggio virtuale' contro l’attuale presidente Emmanuel Macron. Fin nel cuore di Parigi, come su cavalcavia e rotatorie, si moltiplicano i manifesti «Zemmour presidente» affissi nottetempo da anonimi, poi magari strappati di giorno, prima di nuove affissioni notturne. Sospettato di non candidarsi ufficialmente solo per conservare le proprie poltrone mediatiche, Zemmour è stato alla fine sospeso come opinionista tv su ordine dell’authority dell’audiovisivo (Csa), che ha riconosciuto nel 63enne un candidato potenziale.
Spesso incline a dar lezioni agli altri, la Francia vive uno strano inizio di campagna elettorale che ruota molto sui temi dell’insicurezza e dell’immigrazione, o su staffilate anti-europee. Il fronte dei candidati euroscettici, fra l’altro, ricongiunge il duo degli ultranazionalisti nemici Le Pen-Zemmour al candidato della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon, il 'tribuno rosso' 70enne che ha divorziato con il centrosinistra. Lo strano trio, se così si può chiamare, totalizza nei sondaggi circa il 40% cumulato. E queste 'passerelle' fra gli estremi, all’insegna d’un 'sovranismo' alla francese che scavalca lo steccato droite-gauche, confermano proprio una delle tesi annesse avanzate 40 anni fa da Lévy. Esiste davvero uno zoccolo duro xenofobo nascosto fra le pieghe della Francia profonda e pronto a risvegliarsi in congiunture difficili? È triste immaginarlo, quando si conserva in cuore l’immagine ridente delle verdeggianti contrade della campagna francese, ammirate dall’alto ogni anno pure da decine di migliaia di viaggiatori italiani.
In ogni caso, ridurre il caso Zemmour a un dato passeggero rischia di dirottare ogni riflessione fuori da quanto viene suggerito, da mesi, pure da altri indizi. Si pensi in particolare ai clamorosi 'appelli' al presidente Macron pubblicati dal settimanale conservatore Valeurs Actuelles( appena condannato a sua volta per ingiurie a sfondo razzista), sottoscritti da centinaia di militari, fra cui persino dei generali in pensione. Appelli volti a presentare la Francia come un Paese sull’orlo del baratro, per via del disordine generato dalle violenze nelle banlieue e dall’immigrazione illegale. Appelli che alludono a un non impossibile intervento autonomo dell’esercito per restaurare l’ordine. A tratti, da simili movimenti d’opinione, sembra spandersi un certo senso di paranoia.
Tanto più inquietante se si pensa che proprio un grandissimo antropologo culturale francese, il compianto René Girard, ha formalizzato la teoria del 'capro espiatorio' ricercato dalle società in fasi critiche. O quando si ricorda la penetrante interpretazione dell’ascesa delle idee naziste, persino fra tanti intellettuali tedeschi degli anni Trenta, elaborata dallo storico francese Christian Ingrao, tesa a provare la paranoia collettiva percepita in un’epoca in cui non pochi tedeschi furono spinti a credersi sull’orlo d’un collasso di civiltà. Al pari di Le Pen e di Mélenchon, Zemmour martella prioritariamente all’indirizzo di quei ceti medi oggi più che mai insidiati dalla paura, più o meno giustificata, d’un declassamento sociale che pareva impossibile un decennio fa, nella Francia protettrice del welfare e dei sussidi familiari. Finora, in chiave elettorale, il violento duello fra Zemmour e Le Pen per la leadership nell’ultradestra pare favorire paradossalmente Macron, attorno al quale converge ancora buona parte degli elettori moderati (compresi non pochi cattolici), apparentemente poco convinti dagli sfidanti potenziali in lizza (in attesa di primarie e congressi) all’interno delle due ex case politiche egemoni neogollista e socialista.
Ma se ci fosse del vero nella vecchia e scomodissima tesi di Lévy, mai davvero confutata del tutto, la presunta 'culla dei diritti umani' rischierebbe d’imbrodarsi non poco. E in proposito, in questo clima interno poco edificante, non sfugge agli osservatori più attenti l’imbarazzo con cui lo stesso Macron affronta da tempo il tema dell’immigrazione, con dissonanze talora stridenti fra i proclami umanistici ufficiali e certe pratiche concrete sul campo (come alcuni respingimenti alla frontiera italiana) già additate pure da organismi internazionali.