Era prevedibile ma non auspicabile, perché rivela molto di noi e del nostro modo di affrontare i problemi legati al digitale (e non solo a quello). Da giorni – ironia della sorte, soprattutto su WhatsApp – è un continuo scambio di messaggi di questo tenore: «Devi abbandonare WhatsApp al più presto».
Oppure, se l’amico è considerato un esperto: «Anche tu abbandonerai WhatsApp?» Tutto nasce dal fatto che il servizio di messaggistica più popolare del mondo ha annunciato che, a febbraio, cambierà alcune clausole legate alla privacy degli utenti. In pratica, da quella data, gli iscritti avranno due possibili scelte: abbandonare WhatsApp o adeguarsi alle novità. Nel secondo caso, col risultato di cedere alcuni dati e pezzi di privacy al gruppo Facebook, che detiene oltre all’omonimo social anche Instagram e WhatsApp (che ha acquistato nel 2014 per 19 miliardi di dollari). Che sia uno sviluppo dannoso è un dato di fatto. Ma i danni non sono solo e tutti su WhatsApp. E questo riguarda noi, cioè gli utenti, le persone. infatti, la maggior parte di noi – per pigrizia, mancanza di tempo, distrazione e superficialità – da anni accetta (e non solo nel digitale) qualunque contratto senza averlo letto. E se ci chiedono se l’abbiamo fatto, rispondiamo «sì» senza nemmeno vergognarci un po’ per avere detto una bugia. Tanto, pensiamo, non abbiamo niente da perderci. Finché un giorno arriva il fondatore della Tesla a dirci via Twitter che dobbiamo scappare a gambe levate da WhatsApp perché la nostra privacy è a rischio e ci dice anche dove dobbiamo traslocare: su Signal. Cioè, su una piattaforma di messagistica «dove la privacy è garantita».
In alternativa, qualcun altro propone Telegram. Nessuno dei due è perfetto, ma tanto, noi, abbiamo fretta. Anzi, fretta e paura. E così in centinaia di migliaia condividiamo un video di denuncia (magari senza averlo visto fino fondo, perché noi abbiamo sempre fretta), senza fermarci a riflettere su un punto: ma una cosa che racconta un italiano che dice di vivere in America e che riporta l’allarme lanciato da un americano, vale anche per me che vivo in Italia e in Europa?
Sarebbe bastata questa piccola domanda per cambiare tutto. Per farci calare l’ansia e non lanciare allarmi via social inutili. Perché per noi che viviamo in Europa (in quella Europa che riempiamo, anche ragione, di critiche) non cambierà nulla. Né a febbraio né più avanti. Semplicemente perché dal 25 maggio 2018 è entrato in vigore in tutta l’Unione Europea un regolamento in materia di trattamento dei dati personali e di privacy che, tra l’altro, ci tutela proprio da questo. La sua sigla è Rgpd (Regolamento Generale sulla Protezione dei dati) o, all’inglese, Gdpr ( General Data Protection Regulation). Ma noi, che andiamo sempre di fretta e non abbiamo tempo per queste 'cose burocratiche', non ce ne eravamo accorti. E se ce lo fanno notare, di solito, rispondiamo: «Nessuno me l’aveva detto».
Insomma, siamo alle solite: vogliamo usare le tecnologie, ma non abbiamo tempo di capire, non dico il loro funzionamento ma nemmeno le loro «regole». Se però c’è da indignarsi, allora il tempo lo troviamo. E anche parecchio.
Purtroppo non è la prima volta che accadono simili fatti. Pensate che dieci anni fa – dieci anni fa! – una catena inglese di videogiochi decise di mettere in atto una grande (e importante) provocazione. A partire dal primo aprile del 2010 (ma, come vedrete, non era solo uno scherzo) decise di cambiare i termini legali per chi faceva acquisti sulla sua piattaforma. E aggiunse una clausola che prevedeva che chi avesse accettato il nuovo contratto si sarebbe impegnato a cedere la propria anima all’azienda, rinunciando a qualunque possibile rivalsa legale futura. Dopo 15 giorni la società organizzò una conferenza stampa dove spiegò di possedere 7.500 anime di propri clienti. I quali, andando di fretta, avevano dato il proprio consenso alle nuove clausole senza ovviamente averle lette. Sono passati 10 anni. E ancora oggi, per fretta e superficialità, «vendiamo le nostre anime» ai padroni del digitale, salvo poi indignarci e spaventarci anche quando è inutile. Per questo, oggi, più che mai dovremmo dire: grazie, Europa.