Proprio nel giorno in cui la sorte decretata per la piccola Indi Gregory veniva riappesa all’ultimo filo d’un ricorso in extremis all’Alta Corte del Regno Unito ai sensi della Convenzione dell’Aja (il verdetto è previsto per oggi) ci è giunto il messaggio annuale dei vescovi italiani per la prossima “Giornata per la vita”, che si terrà a febbraio. Fin dalle prime battute il messaggio ci dà subito l’immagine di una riflessione pensosa e appassionata. Sappiamo che morte e vita sono l’intreccio di un duello insito nella condizione umana e nel suo mistero.
Naturale è la morte a fronte della rigenerazione della vita, nel miracolo della sua perenne novità; e tuttavia “nemica” rispetto al desiderio di vita e alla singolarità di ogni esistenza umana, e sotto questo profilo temuta come un male insensato e ingiusto, una falce, un castigo, un dolore, una sconfitta. Il pensiero della vita, la bellezza della vita, la gioia della vita incrocia fatalmente l’assurda esperienza di quanta morte fuori natura l’umanità infligga a sé stessa. Abbiamo negli occhi lo strazio dei corpi dei massacri di guerra, in questi stessi giorni feroci, sotto lo sguardo d’un mondo diviso, impotente o ignavo a spegner l’odio. C’è poi sempre e perdura il catalogo triste delle vite sprezzate, delle vite perdute che l’indifferenza getta all’oblio col distoglier lo sguardo e voltare le spalle: i migranti, i malati, gli anziani, i bambini, gli esseri fragili che un costume sociale avvezzo al tornaconto (mors tua vita mea) trascura, o lascia ai margini, o persino esclude.
E poi c’è qualcosa di più sottilmente insidioso, quando la condizione umana è “mortificata” nello spirito da una svalorizzazione che la opprime, come si verifica nel lavoro sfruttato, nella condizione femminile discriminata, nella vita grama dei miserabili. A ragione Kierkegaard scrisse che la malattia “mortale” è la disperazione. E su tutte le ingiustizie, poi, l’immenso strazio di vita innocente strappata dal grembo prima di nascere. La vita ha bisogno d’essere una fioritura. Abbiamo inventato di tutto per ritardarne l’appassimento inesorabile: farmaci, vaccini, trapianti, macchine salvavita. Ma è all’interno del tempo che ci è dato, è durante le stagioni di vita che dobbiamo fiorire, e farci fiorire gli uni gli altri.
Darci vita, amare la vita, rispettare la vita. Sentirne la forza, intenderne le ragioni, scansare gli errori di immaginarla come possesso, quand’essa è dono, dono destinato a donarsi, a rinnovare il suo miracolo. Non ci è possibile una vita senza morte, ma ci è connaturato il desiderio di una vita senza fine, se intendiamo la morte come il parto che immette nel dies natalis dell’Oltre.
Questione di fede? Il messaggio dei vescovi dice con forza che l’accoglienza e il rispetto della vita appartengono alla razionalità umana, sono pura espressione di civiltà. Ma non rinuncia ad aggiungere nella perorazione finale che i credenti trovano nella difesa e promozione della vita un impegno di fede e di amore. E questa chiusa, che leggiamo nel giorno che Indi Gregory forse ci sarà tolta, da un lato rinfocola il dolore per il modo brutale della giustizia dal pollice verso che abbiamo visto sin qui, se non vi sarà resipiscenza. Se morrà per sentenza in quel modo decretato, resterà una ferita ingiusta, anche se i medici italiani, forse, accogliendola in Italia, non avrebbero potuto mutare prospettiva terapeutica, se non in una palliazione pediatrica vissuta insieme ai genitori; ma almeno questo sarebbe stato un accompagnamento, un percorso condiviso di affettuosa tenerezza nel congedo. Se per un ultimo filo di speranza dovesse giungere a Roma, non altra forse sarebbe la possibilità concreta di prodigarsi, se non in questo profilo intenso di partecipazione umana.
Resta così sul fondo della nostra commozione il mistero del dolore innocente, in ogni caso insoluto; forse si attaglia a Indi ciò che Emmanuel Mounier scrisse della sua piccola Françoise: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, in po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti».
Non c’è umana risposta che non bussi alla porta d’un altro cielo. Per questo il messaggio che richiama la fede orienta il cuore ferito a credere ancora nella promessa che la vita, amata e difesa fin che giunge alla soglia del suo passaggio, non è tolta, ma trasformata.