Ansa
Caro direttore,
qualche giorno fa è morto un «santo della porta accanto», come direbbe papa Francesco, per indicare quelle persone che in silenzio «vivono vicino a noi tutti i giorni e con il loro operare sono un riflesso della presenza di Dio».
Si chiamava Roberto Bonfanti di Nova Milanese. Aveva 58 anni. Roberto era tetraplegico da 42 anni, dopo quel fatidico tuffo sbagliato nella piscina di Varedo il 20 agosto 1980: picchiava la testa, lesionando la quinta e la sesta vertebra cervicale con il blocco totale degli arti inferiori e parziale di quelli superiori. Ricoverato d’urgenza in una mega struttura ospedaliera di Milano, vi rimane per undici mesi. Undici mesi che finiscono per peggiorare il suo quadro clinico. La malasanità riduce Roberto a una situazione sanitaria tale da tentare in Germania una terapia più consona. Tornato in Italia, la «Provvidenza – raccontava – mi ha offerto una seconda possibilità di vita».
Ricomincia a studiare, fino a giungere al quarto anno di università. Si diploma, in informatica e in grafica. Ma poi deve sospendere gli studi per la salute sempre più malferma a causa della osteomielite. Viveva praticamente tutta la giornata prono, appoggiandosi sui gomiti.
E questo per 42 anni. Le avversità che ha incontrato in questi anni sono indicibili, non ultime la malattia e la morte dei genitori e del fratello. Nonostante questo, non ha mai chiesto 'di farla finita'. Tutt’altro! Ecco quanto ripeteva: «Ho vissuto questi anni come un dono, come una seconda possibilità di vita ridonata. Ogni giorno mi ha sostenuto la speranza di sperimentare qualcosa di nuovo».
E se gli chiedevamo dove trovasse la forza, ma soprattutto la pazienza per affrontare quello che la vita gli aveva riservato, rispondeva: «Non sono mai stato solo nell’affrontare gli eventi della vita; ho sempre avuto al fianco Gesù, che mi ha accompagnato e mi ha sostenuto con la sua grazia. Un giorno affronterò una crisi che non riuscirò o non potrò superare, ma fino a quel giorno continuo a considerare ogni giornata come un dono e a trovare la forza e la pazienza necessarie per affrontare la vita, nella certezza che non sto compiendo da solo il mio viaggio. C’è sempre Gesù».
Quando qualcuno gli domandava: come stai Roby? La risposta era sempre: «Bene». Mai si lamentava. Gli incontri con lui erano una ricchezza: sempre sorridente e positivo, amava la vita. Dalla sua cameretta, uscivi trasformato. La sua forza era nella fede. Una fede veramente profonda, fatta di abbandono alla volontà del Signore. «Ognuno ha la propria croce – diceva –. La mia è questa». E ancora: «No, a stare sempre su questo letto, non mi sento in prigione, perché l’unica prigione ce la costruiamo noi». Grazie, direttore. La vita di persone come Roberto ci riconciliano alla vita. Ci riconciliano a Dio.