Papa Francesco con padre Antonio Spadaro - ANSA/OSSERVATORE ROMANO PRESS OFFICE
Il testo che segue è un’anticipazione tratta dall’introduzione al libro «L’atlante di Francesco - Vaticano e politica internazionale» (Marsilio, 267 pagine, 14 euro), di padre Antonio Spadaro, direttore di «La Civiltà cattolica». Il testo viene presentato lunedì 13 marzo alle 18 a Roma, nella sede della rivista della Compagnia di Gesù, in via di Porta Pinciana 1. Ne parleranno con l’autore Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, e Pietro Parolin, Cardinale Segretario di Stato della Santa Sede, a dieci anni dall’elezione del Pontefice, il 13 marzo 2013.
Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sorgere, segnata dalla globalizzazione. Eppure, essa ha oggi i tratti dell’indifferenza e del conflitto, come spesso papa Francesco ripete. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti altri. Il pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano».
Quando Francesco, nell’intervista che gli feci nel 2013 per «La Civiltà Cattolica», parlò della Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia», non intendeva usare una bella immagine, retoricamente efficace. Quel che aveva davanti agli occhi era già uno scenario da «guerra mondiale a pezzi», che nel febbraio 2021 con l’invasione russa dell’Ucraina ha assunto i tratti insanguinati di una sfida all’ordine mondiale internazionale fino alla minaccia dell’atomica. La crisi globale, in realtà, prende varie forme e si esprime in conflitti, dazi, fili spinati, crisi migratorie, regimi che cadono, nuove alleanze minacciose e vie commerciali che aprono la strada a ricchezza, ma anche a tensioni. Si può costruire una mappa di queste ferite aperte e sanguinanti, peraltro sempre incompleta.
Difficile giudicare quale sia l’aggettivo più appropriato – e quale il meno – tra quelli che i commentatori hanno attribuito finora a papa Bergoglio e al suo ruolo nel campo della politica internazionale. La gamma si estende dal «rivoluzionario» stupito e ammirato di Eugenio Scalfari, alle numerose e poco bonarie definizioni di «marxista» o «populista», fino allo scetticismo che ritiene irrilevante l’azione della Santa Sede a livello internazionale. Per Francesco questo conflitto di interpretazioni non sembra un problema e, con grande concretezza, lascia invece intendere quanto sia importante la diplomazia vaticana creando di sana pianta una nuova sezione – la terza – della Segreteria di Stato dedicata ai nunzi, cioè ai rappresentanti diplomatici della Santa Sede nei paesi con i quali essa intrattiene regolari rapporti. (...)
Quando Francesco interviene in prima persona nel dibattito della politica internazionale lo fa con forza e con modalità innovative che generano un senso di stupore. Per qualcuno vero sconcerto. Ho avuto modo di porgli una domanda sui suoi progetti in ambito ecclesiale: «Lei vuole fare la riforma della Chiesa?», domandai. La sua risposta fu candida e diretta: «No». E proseguì: «Voglio solo mettere Cristo sempre più al centro della Chiesa. Poi sarà Lui a fare le riforme necessarie». Anche nel contesto politico internazionale Francesco sta tentando di fare lo stesso: mettere Cristo al centro del mondo. Bergoglio è un leader spirituale cristiano. E solamente in quanto tale può parlare di politica e diplomazia. Francesco ha una precisa consapevolezza del suo compito, una consapevolezza bruciante sul suo ruolo come pontefice. Il suo modo di vivere questo impegno si sintetizza nel gesto di accasciarsi la sera in cappella meditando sulla giornata, un momento in cui il potere papale si interroga di fronte a Dio.
Ma è proprio in questo gesto di umiltà, nel farsi da parte per lasciare a Cristo il centro della scena, che Bergoglio diventa davvero «rivoluzionario». Questa parola – si faccia attenzione – assume per lui connotati specifici; la si fraintenderebbe intendendola nel senso in cui compare nei dizionari della politica. Ciò che intende realizzare ha un’evidente radice spirituale e mira a favorire l’opera di Dio nella storia. Questo di per sé è rivoluzionario. «Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!», spiegò nei primi mesi di pontificato. «Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto, fa di noi rivoluzionari, perché – e cito Benedetto XVI – «è la più grande mutazione della storia dell’umanità». Perché cambia il cuore». Il suo pontificato è «profetico» perché conferisce al movimento del tempo il suo rapporto a Dio, gli dà un significato nella relazione con il trascendente; la sua rilevanza politica è indiscutibile – e di fatto indiscussa – ma troppo spesso incompresa nella profonda connessione tra politica e spiritualità, appiattita dalla prospettiva «mondana» di che cosa sia un leader e di quali siano le sue caratterizzazioni. Francesco, da credente, sa che il mondo è il cantiere di Dio e il suo compito, da pontefice, è quello di accompagnare i processi storici più che di occupare spazi di potere.
In questo senso sa di dover attraversare tempi di crisi. Per il papa il termine «crisi» non ha una connotazione di per sé negativa. E, se c’è una parola che dice in sintesi la situazione globale che il mondo sta sperimentando, questa è «crisi». Nel suo discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri per il Natale 2020, papa Francesco l’ha evocata ben quarantasei volte. Nel Natale della pandemia, ha detto il papa, «la crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti». Francesco ha voluto mettere in evidenza il significato e l’importanza dell’essere in crisi. Ha riconosciuto innanzitutto che «la crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione». Dunque, è un’esperienza umana fondamentale ed è «una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale». Non la si può evitare, e i suoi effetti sono sempre «un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare».
Già si comprende come la crisi sia un motore dell’azione e delle scelte, anche perché destabilizza e prepara nuovi equilibri. Richiede – come ricorda la radice etimologica del verbo greco krinō, dal quale deriva la parola italiana – quel tipico lavoro di setaccio che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura. Il verbo significa, infatti, investigare, vagliare, giudicare. Il tempo della crisi è «un tempo di discernimento, che invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità». La crisi in questo senso compie la storia, la quale non prende forma se non attraversa tempi di crisi, appunto. (...) Francesco ha una visione evangelicamente dialettica della storia: è come se dicesse che se non c’è crisi non c’è vita. In questo senso la crisi evoca la speranza. Da qui il suo messaggio: in tempi di crisi occorre essere realisti, e «una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire».
E questo perché? Perché «Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi». Allora chi guarda alla crisi senza farlo alla luce del Vangelo «si limita a fare l’autopsia di un cadavere». Il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, e il Vangelo stesso mette in crisi. Perciò, «davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento», a ben vedere si comprende «che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio». Francesco distingue nettamente la crisi dal conflitto distruttivo. Questo è un tema forte della visione del pontefice. Il conflitto, infatti, «crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti». La logica del conflitto cerca sempre una frattura tra parti opposte. Per esempio, la Chiesa, letta con le categorie di conflitto, genera divisioni tra «destra» e «sinistra», «progressisti» e «tradizionalisti». In tal modo frammenta e polarizza. Il conflitto irrigidisce e alla fine porta a imporre «una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa».
Francesco definisce persino la Chiesa come un «Corpo perennemente in crisi», dove la novità «germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo» senza contrapporsi a esso. La «riforma», quindi, non risponde alla logica del conflitto ma a quella della crisi, che implica un superamento, un passo avanti. Un tempo di crisi è sempre un tempo di discernimento. E per discernere è necessaria un’ermeneutica, una chiave di lettura per leggere i conflitti del presente e trovare risposte per il futuro. Nel suo discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per gli auguri per il nuovo anno 2023 Francesco si è trovato – a dieci anni dalla sua elezione – a definire il compito della diplomazia vaticana nel sessantesimo anniversario dell’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, e cioè quello di «appianare i contrasti per favorire un clima di reciproca collaborazione e fiducia per il soddisfacimento di comuni bisogni. Si può dire che essa [la diplomazia] è un esercizio di umiltà perché richiede di sacrificare un po’ di amor proprio per entrare in rapporto con l’altro, per comprenderne le ragioni e i punti di vista, contrapponendosi così all’orgoglio e alla superbia umana, causa di ogni volontà belligerante».
L’ermeneutica di Francesco è fondata sul tempo, sull’«apertura al futuro». Ed è proprio questo aggetto sul futuro che plasma la diplomazia di Francesco. Perché il futuro non può che essere «escatologico»: non è solo ciò che verrà dopo oggi, ma la fine dei tempi. Per lui, uomo di fede, c’è Dio che muove il processo storico e spinge «con gemiti inesprimibili», direbbe san Paolo, a mettere in atto ogni possibile sforzo per puntare all’«integrazione». Che non è né mai può essere compromesso diplomatico.