Vent’anni fa l’evento che ha rappresentato una pagina nera della storia repubblicana e che continua a provocare - Ansa Archivio
Il G8 di Genova 2001 è entrato nella memoria collettiva per gli scontri durante le manifestazioni dei gruppi antiglobalizzazione scesi in piazza con lo slogan 'un altro mondo è possibile'. Scontri nei quali la frangia violenta dei black bloc devastò la città, in cui rimase ucciso Carlo Giuliani e che terminarono con l’incubo dell’irruzione violenta della polizia nella caserma Diaz. Una pagina nera nella storia della Repubblica. Mario Placanica, il carabiniere che uccise Carlo Giuliani, in un’intervista a 'InOnda' su La7 ha detto: «Io sono il simbolo di quello che non deve accadere mai». A vent’anni di distanza, placata l’emotività di quei momenti, in un mondo completamente diverso, è l’ora di riflettere sul significato di quelle giornate.
Nel luglio del 2001, nelle strade di Genova si ritrovarono giovani provenienti da mondi sociali diversi che trovavano un punto di aggregazione nel rigettare il 'nuovo ordine mondiale' che la globalizzazione degli anni 90 del Novecento aveva creato. C’erano rappresentanti di gruppi popolari, comunità di base, centri sociali a cui si aggiunsero i tanti che cominciavano a usare internet per tessere la rete dei nuovi movimenti sociali. Le ragioni non mancavano: come scrisse proprio in quei giorni l’economista Jacques Généreux su 'Esprit' in un articolo dal titolo evocativo, 'Manifesto per l’economia umana', «mai la capacità di produrre ricchezza e quella di mettere al servizio la prosperità per il bene di tutti è stata più eclatante». Da qui le tante richieste che venivano lanciate ai 'grandi' della Terra: sviluppo contro sottosviluppo, uso equo delle risorse contro concentrazione della ricchezze, libertà di circolazione contro diritti esclusivi di cittadinanza, pacifismo, ambientalismo, autodeterminazione delle comunità oppresse.
La discussione sul nuovo ordine mondiale fu sepolta dalla violenza che sconvolse quei giorni. E così andò persa un’occasione per affrontare temi che, a vent’anni di distanza, sono più che mai al centro del dibattito. Oggi infatti, vediamo con più chiarezza la natura ambivalente di quel decennio incredibile cominciato con la profonda cesura storica determinata dalla caduta del Muro di Berlino. Quel fatto così clamoroso diede il 'la' agli anni della «globalizzazione galoppante » durante i quali l’Occidente – come il mondo intero – credette di essere entrato nell’epoca dell’espansione illimitata. Si trattò di un momento straordinario in cui si ebbe la sensazione di essersi finalmente liberati da quella costrizione, ereditata dalla seconda guerra mondiale, costituita dalla contrapposizione tra il blocco occidentale e il blocco sovietico. Il filosofo americano Francis Fukuyama arrivò addirittura a parlare di «fine della storia». Erede della industrializzazione e della modernizzazione, anche la 'globalizzazione' è stato un termine che voleva indicare una direzione, un destino: l’aumento illimitato delle possibilità di vita per tutti. Il mondo si allargava, abbattendo i muri e con esso i confini, trasformandosi in un campo aperto di opportunità che tenevano insieme gli interessi economici da una parte, e quella voglia di vita e di autorealizzazione diffusasi ormai presso tutti gli strati della popolazione.
Nell’euforia di quegli anni, la globalizzazione fu vista come un processo espansivo lineare e sostanzialmente pacificato, sostenuto dalla autoevidente superiorità del modello liberale, con i suoi corollari della democrazia e del mercato. Mettendo tra parentesi i tanti squilibri che tale processo creava. Furono quegli gli anni in cui la dottrina neoliberista travalicò i confini di una parte politica (la destra thatcheriana) diventando il modo di pensare non solo delle classi dirigenti ma anche dell’uomo della strada. Una trasformazione che si compì nel momento in cui la cosiddetta 'terza via' di Tony Blair e Bill Clinton rendeva il progetto che era stato di Margareth Thatcher e Ronald Reagan compatibile con la nuova cultura 'progressista'. Sempre più lontana dall’idea solidaristica e socialdemocratica e sempre più attratta dalla cultura liberale e individualista a partire dal presupposto che la questione dell’uguaglianza dovesse essere posta nei termini di opportunità.
Eravamo prima dell’11 settembre, della crisi del 2008 e del coronavirus, cioè dei tre grandi choc globali che, negli ultimi vent’anni, hanno cambiato il corso delle cose. Costringendoci a comprendere che il modello di sviluppo che si è affermato alla fine del Ven- tesimo secolo è, sì, straordinariamente potente e capace di generare crescita, ma anche enormemente entropico con gravi problemi dal lato della sostenibilità ambientale, sociale, umana. La carica emotiva che ruotò intorno a quelle manifestazioni accese la miccia di una violenza che travolse tutto. Ma è innegabile che molti dei temi di quei giorni (al di là delle soluzioni prospettate) toccavano questioni importanti che oggi, dopo due decenni, ritroviamo in cima all’agenda della politica, dell’economia e della scienza.
Da qui un insegnamento: l’ordine istituito, gli interessi dominanti non sempre sono disposti ad ascoltare le critiche. Anche quando sono giuste. D’altra parte la critica non sempre trova le forme e i modi più opportuni per esprimere il proprio punto di vista e per farsi ascoltare, facendosi anzi attirare da dinamiche che conducono spesso in vicoli ciechi. La politica, da parte sua, non sempre è all’altezza della situazione. Schiacciata dall’ansia del consenso a breve termine, essa fatica a riconoscere e affrontare le questioni di fondo del nostro tempo. Questo squilibrio vale oggi come allora. Non illu- diamoci. Anche ai nostri giorni, infatti, sappiamo di avere davanti sfide impegnative che faticano però a essere comprese e affrontata: la questione ambientale che richiederebbe interventi molto più radicali; il governo umano e lungimirante dei flussi migratori che continuano a rimanere fuori dall’agenda politica; la precarizzazione e le forti disuguaglianze che generano quel senso di insicurezza che alimenta tante tensioni sociali.
Gli scontri che devastarono la città misero in secondo piano le richieste ai Grandi della Terra. Nel tempo la dottrina neoliberista ha travalicato i confini politici diventando il modo di pensare anche dell’uomo della strada - Avvenire Archivio
Rimane la domanda di come sia possibile lavorare concretamente per avviare quei processi di trasformazione di cui necessita la condizione in cui viviamo, dentro processi così altamente entropici. Senza cadere nella trappola del pensiero 'alternativo' a ogni costo e tanto meno della violenza. Un compito profetico che non può che appoggiarsi sulle spalle dei tanti uomini e donne di buona volontà che riconoscono la problematicità della condizione contemporanea e che continuano, nonostante tutto, a coltivare la speranza – esigente, faticosa e costruttiva – che un mondo migliore è possibile.