Quei 120 neonati nelle incubatrici: l'umanità da salvare
mercoledì 25 ottobre 2023

Quarantatré minuti. Tanto dura l’assemblaggio di video della notte del 7 ottobre che l’Esercito israeliano ha mostrato alla stampa internazionale, vietandone però la diffusione. L’assalto di Hamas ai kibbutz è durato dieci ore. Dieci atroci ore di ferocia e bestialità tali, che chi le ha viste ne riferisce con parole scarne, come con pudore, o con un indicibile spavento.

Le immagini provengono dalle telecamere dei kibbutz, ma anche dalle bodycam dei terroristi, ovvero dalle camere portate sulla fronte, con cui rivedi quella notte come in prima persona. Le scene non sono state mostrate agli israeliani, per non sconvolgere i parenti delle vittime e anche forse per non alimentare ulteriormente la rabbia della popolazione. Perché quei fotogrammi, si direbbe a leggere chi li ha viste, sono un autentico distillato di Male. Cose che non crederesti possibili, non oggi, non in quella che noi cristiani chiamiamo Terrasanta.

Bambini di dieci anni colti nel sonno che scappano, assistono all’omicidio del padre, piangenti di terrore vengono braccati e ricatturati. Soldati decapitati. Un asiatico, dipendente dei kibbutz, macellato a colpi d’ascia. Un cadavere bruciato ha ancora in bocca lo straccio che ne soffocava le urla, nella tortura. Una faccenda insomma infernale quei quarantatré minuti, cose che immaginiamo potere accadere solo in guerriglie tribali o in assedi e saccheggi di secoli remoti.

C’è da sperare, anche se ne dubitiamo, che queste immagini non affiorino sul web, perché sconvolgono ma, anche, possono contagiare, come virus di una guerra batteriologica. Il Male produce Male, il sangue cerca altro sangue.

Israele mostra il video alla stampa internazionale, comprensibilmente, per farci sapere cosa davvero è accaduto nella notte del 7 ottobre. Ma se gireranno, i fotogrammi con i bambini inseguiti e i cadaveri bruciati, potrebbero produrre una risposta esponenziale, giacché è chiaro che chi è capace di tanto non ha in odio solo gli ebrei, ma l’Occidente, e anzi la vita stessa. («Voi siete per la vita, noi siamo per la morte», recitava un motto dell’Isis anni fa, e chi ha ideato l’attacco a Israele aveva, se tanto orrore è stato anche volutamente registrato con le bodycam, questa medesima logica). Così che dopo avere letto, ammutolito, chiuderesti il pc, come arreso – irreparabile davanti agli uomini, e a Dio, tanto male – se non ti venissero in mente delle immagini da Gaza sotto i bombardamenti, viste sui tg la sera prima. Era una sala di un martoriato ospedale, piena di incubatrici in fila, e nelle incubatrici decine di neonati prematuri.

Secondo l’Unicef ci sono oggi a Gaza 120 neonati in incubatrice, settanta dei quali incapaci di respirare da soli, bisognosi di ventilazione. Perché le incubatrici funzionino occorre la corrente, che a Gaza non c’è. O il carburante, per i generatori. Ma anche quello a Gaza assediata non viene distribuito. Per questo, spiegava un medico di quell’ospedale, la vita di quei neonati è appesa a un filo: due giorni di scorte, oggi forse uno, e se le incubatrici si spengono quei bambini morranno. Alcuni in pochi secondi, altri in qualche ora di respiro sempre più affannoso, di aria che manca. A Gaza in questi giorni sono morti già oltre mille bambini e ragazzi, e altri ne moriranno. Cos’hanno di diverso quei centoventi? Hanno che sono gli assoluti inermi, nemmeno in grado di respirare autonomamente. Figli di palestinesi come le piccole vittime dei kibbutz lo erano di ebrei; ma in realtà ancora solo creature completamente ignare, figli di Dio, figli dell’uomo. Perché quei bambini dovrebbero morire, quale assurdo senso avrebbe la loro morte, anche in una logica di guerra? Pura vendetta sarebbe, se si lasciassero spegnere i generatori degli ospedali.

Vendetta, certo. Lasciare morire i neonati di Gaza come i figli di Israele volutamente massacrati il 7 ottobre, è in questo orizzonte livido che la guerra minaccia di tracimare e coinvolgere l’Iran, magari gli Usa, poi chissà. Ma, se qualcuno osasse, per primo, un gesto di clemenza, un gesto di pietà. Se Israele mettesse in salvo almeno quelle creature da niente, nemmeno due chili di peso, dei passeri, vive grazie a un po’ di carburante: che razza di segno sarebbe. Non perdono, ma almeno un principio di pietà. Parola scomparsa, inammissibile, tra Israele e Gaza, vicendevolmente. Pietà, se qualcuno avesse il coraggio averne. Pietà dopo avere visto ciò che è accaduto nei kibbutz, come è possibile? Eppure che segno sarebbe, salvare i più inermi di tutti, quei centoventi nelle incubatrici. (La pietà non è dei deboli, è invece dei grandi, e dei forti).

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