L’udienza generale di ieri, che ha onorato – il giorno successivo – la festa di san Giovanni Maria Vianney nel contesto dell’Anno sacerdotale, è ricca di un insegnamento che è giusto e saggio raccogliere. L’intervento del Papa impostato sulla possibile contrapposizione tra la grandezza spirituale del santo e la sua attualità – una grande testimonianza, ma di altri tempi – è teso a far cogliere che la testimonianza del santo d’Ars ha una «forza profetica» che lo rende pienamente significativo oggi; se non nei modi pastorali, in «uno stile di vita e un anelito di fondo che tutti sono chiamati a coltivare»: «La sua umile fedeltà» alla missione affidatagli, «il suo costante abbandono, colmo di fiducia, nelle mani della Provvidenza divina», con i quali giunse a «toccare il cuore della gente», non per le sue doti o i suoi progetti, ma in forza di «ciò che (egli) intimamente viveva, e cioè la sua amicizia con Cristo».Il discorso del Papa ci sembra contenere alcuni insegnamenti di grande attualità. La parola di Dio – come ha detto san Paolo – «non è incatenata», nulla la può fermare, né le condizioni avverse, né i limiti di chi la annuncia. In essa agisce Cristo stesso, che ha comunque il potere di comunicarsi e di persuadere; essa chiede piuttosto un testimone, un cuore e una mente già in ascolto e già (almeno in parte) conquistati. Il nostro contesto culturale è spesso scoraggiante, ma ciò non può essere preso a giustificazione per ritenere l’annuncio impossibile o infecondo. C’è un’alleanza da sempre attiva tra il cuore dell’annuncio e il cuore dell’uomo. Un rapporto insondabile e incalcolabile ma certo, su cui si può fare affidamento in ogni caso. Ben sapendo che può essere sepolto dalla dimenticanza, frainteso dall’errore, imprigionato dalla cattiveria o dal cinismo, ma anche ricordando che l’uomo, come dice il Papa, «mendicante di significato e compimento, va – comunque e in tante forme – alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi».L’obiezione, tuttavia, ritorna, perché «le sfide della società odierna (...) si sono fatte più complesse». Alla «dittatura del razionalismo» dell’epoca del Curato d’Ars è subentrata la «dittatura del relativismo» di oggi. In realtà, due forme opposte di una comune concezione insufficiente della ragione, inadeguata a rispondere alle esigenze di senso della ragione stessa: la ragione deificata del razionalismo, che ha perso il senso del limite; e la ragione «mortificata» dal relativismo contemporaneo: ragione plurima e senza centro, soggettiva e senza certezza.Questa situazione culturale, che appare come la più sfavorevole alla verità della fede, è però una sfida di interesse estremo, perché provoca i credenti a riguardo della capacità che ha la loro fede di dare senso alla vita. Il relativismo-nichilismo di oggi è senz’altro sottoponibile a contestazione filosofica; ma in quanto cultura vissuta ha bisogno anzitutto di un altro argomento dialettico: la testimonianza di un’unità dell’esistenza che ricompone e riconcilia la frammentata e sofferente figura umana di oggi; la reintegrazione della libertà dei singoli e delle relazioni tra gli uomini e tra le generazioni, che sembra oggi impossibile ai più; l’esperienza di un senso dell’esistere capace di contrastarne la scomposizione di nascita e morte, salute e malattia, amore e lavoro. Questa è la «sete di verità», che «arde nel cuore di ogni uomo» – come ha ricordato il Vaticano II –, che chiede anzitutto ai sacerdoti, ma anche a tutti i fedeli di essere «educatori della fede», di formare «un’autentica comunità cristiana», di esercitare «una vera azione materna» nei confronti di ciascuno. A questa verità nei confronti della vita nessuno è insensibile, come ha testimoniato Giovanni Maria Vianney.