Nel 65° giorno di guerra, le notizie dal fronte mobile del Donbass si fanno meno precise e le propagande prendono momentaneamente il sopravvento. Si continua a combattere sui vari fronti aperti nell’Est e a Sud, a cominciare dalla martoriata Mariupol, dove i corridoi umanitari sempre annunciati non si riescono ad aprire. Le truppe russe cercano di avanzare, ma trovano la strenua resistenza ucraina. Si riferisce di guadagni di pochi chilometri in intere giornate di feroci scambi di fuoco.
I dati che vengono diffusi da Kiev ammettono perdite nella propria parte dando però un quadro devastante dello schieramento avversario. Secondo il ministero della Difesa del governo Zelensky, l’Armata russa ha visto distrutta oltre la metà di tutti i suoi mezzi impiegati nell’invasione, ad eccezione dei pezzi di artiglieria. Un presunto dimezzamento di carri armati e aerei che è forse una stima esagerata e non ha nemmeno una chiara comparazione con il bilancio reale delle forze rimaste operative per l’esercito ucraino.
In questi numeri ovviamente si gioca gran parte della partita sul terreno. Il Congresso americano ha dato il primo via libera all’ampio piano di aiuti militari ed economici per Kiev. Se riuscirà a raggiungere la linea dei combattimenti in tempi rapidi, l’arsenale promesso da Washington potrebbe cambiare il corso della guerra nella regione contesa. Tuttavia, le incognite sono numerose. Putin vorrà accelerare le operazioni per evitare il rafforzamento repentino dell’avversario. E, nello stesso tempo, cerca di incutere paura all’Occidente e di iniettare orgoglio patriottico e mobilitazione in Russia. Rientrano in questa strategia i missili lanciati sulla capitale ucraina mentre il segretario generale dell’Onu era in visita e l’escalation verbale che va in onda su tutte le televisioni del Paese.
L’attacco di giovedì sera, benché non mirato a colpire Guterres, ha suscitato unanime riprovazione, per le vittime che ha provocato e per lo sfregio inferto ai tentativi di riannodare i fili della trattativa. In questo senso è stato rivendicato in diretta tv dal primo corifeo di Putin, quel Vladimir Solov'ëv (nella foto) che ormai si vede (fin troppo) spesso anche nei talk show italiani. “Il missile che ha colpito Kiev è un messaggio a Guterres e amici: non visitate la capitale dei nazisti, è pericoloso”. Per la cronaca, anche il premier bulgaro Kiril Petkov era in città con una delegazione del suo Paese, al quale il Cremlino da due giorni ha tagliato le forniture di gas.
Quello che va in onda sugli schermi di Mosca è però ancora più inquietante. I riferimenti a un conflitto contro la Nato si fanno sempre più frequenti. Si parla con leggerezza di Terza guerra mondiale. Si evoca il lancio di missili intercontinentali con testate nucleari sulle città americane. “Uno solo di questi distruggerebbe l’intera New York”, ha detto con tranquillità un’opinionista. E la consapevolezza di innescare un’apocalisse nucleare viene esorcizzata sostenendo che “noi (i russi) andremo in paradiso, gli altri moriranno soltanto”. Pare sia una parafrasi di un proclama dello stesso Zar. Scenari, toni e minacce che non sono evidentemente volti soltanto a fomentare il risentimento interno verso chi sostiene l’Ucraina, ma anche a lanciare un segnale forte alle opinioni pubbliche degli altri Paesi europei, spaventate da un possibile (e non del tutto improbabile) allargamento della guerra.
Un conflitto più lungo sembra per certo all’orizzonte, ma quale sarà lo sbocco di una crisi che si dimostra sempre più difficile da sciogliere rimane assai difficile da prevedere. La scommessa del presidente Biden è che Putin alla fine accetti un compromesso al ribasso prima di perdere sul terreno. La scommessa di Mosca è che, in mancanza di una reale chance di vittoria piena sul campo, agitare lo spettro del conflitto atomico possa indurre gli amici di Kiev a non volere strafare e a convincere quindi Zelensky ad accettare qualche concessione territoriale. Una partita a scacchi nello scontro di propagande, mentre in Ucraina si continua a sparare e a morire.