La prima reazione di fronte alla tragedia di Steccato di Cutro è lo sgomento: com’è possibile che una barca malconcia a stracarica, avvistata già sabato da un aereo di Frontex, arrivi a cento metri dalle nostre coste senza che nessuno sia uscito a intercettarla e soccorrerla? Il mare agitato era tale da impedire di intervenire, con i mezzi navali di cui dispone il governo di un Paese avanzato e proiettato nel mare?
Lo sgomento solleva altri interrogativi. La narrazione semplificante per cui i profughi arrivano a causa della presenza in mare delle Ong si scontra con la forza dei numeri delle persone arrivate via mare e approdate irregolarmente in Italia in questo primo scorcio del 2023. Nonostante gli ostacoli alle attività di soccorso introdotti dal governo e la rarefazione della presenza delle navi umanitarienel Mediterraneo centrale: 14.104, contro 5.345 nel 2022 e 4.304 nel 2021. L’idea che le persone sfidino il mare e tentino il viaggio della speranza perché sanno che qualcuno le soccorrerà trova una netta smentita in queste cifre. Le ragioni delle partenze sono più complesse e variegate di questi slogan da propaganda di basso livello. Basti pensare alle provenienze delle vittime di Steccato di Cutro: Afghanistan, Iran, Somalia…
Anche il consueto biasimo dei trafficanti mostra la corda: se non trovano mezzi legali per arrivare in luoghi più sicuri e accoglienti, i profughi continueranno a cercare chi è disposto a trasportarli, a caro prezzo e ad alto rischio per la loro incolumità. Impedire loro di partire, come si continua a ripetere, è semplicemente disumano e spietato, quando l’alternativa sono i campi di detenzione in Libia o una vita di stenti sotto il regime dei talebani o la minaccia del terrorismo in Somalia.
Insieme allo sgomento, e alla richiesta di chiarire al più presto le responsabilità del mancato soccorso in mare, è giusto porsi la domanda di come impedire il ripetersi di tragedie del genere. Serve un complesso di strumenti, perché le migrazioni sono fenomeni articolati e multicausali. La prima risposta sarebbe una nuova operazione Mare Nostrum, con il mandato di intercettare i barconi il prima possibile, ben oltre le nostre acque territoriali, fin sotto le coste libiche o turche se necessario.
Ma allo stesso tempo si possono mettere in campo delle alternative ai viaggi della speranza. Si possono ampliare le possibilità d’ingresso per lavoro, rispondendo fra l’altro alle carenze di manodopera che diversi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna, e la stessa Italia) e diversi settori produttivi (edilizia, industria alberghiera, agricoltura, servizi sanitari e di assistenza) da tempo lamentano. Si potrebbe reintrodurre l’istituto dell’ingresso assistito da uno sponsor, frettolosamente abolito per ragioni ideologiche. Magari prevedendo un triplo sponsor: oltre a datori di lavoro e parenti che si fanno garanti, un ente locale o un soggetto della società civile che assuma l’incarico di accompagnare i nuovi arrivati nell’apprendimento della lingua e nel processo d’integrazione. Quanto ai rifugiati veri e propri, la soluzione dei corridoi umanitari ha già mostrato risultati promettenti e replicabili, coinvolgendo comunità locali, famiglietutor e volontari in forme di accoglienza diffusa.
Un raro caso fra l’altro, in questo campo, di idea italiana nata come iniziativa ecumenica del mondo cristiano, esportata anche all’estero, in Francia, Belgio, Andorra. Vanno nella stessa direzione le forme di sponsorizzazione privata da tempo attuate in Canada. Più in generale, la formula dei reinsediamenti in un Paese disponibile di chi è stato in un primo tempo precariamente accolto in uno Stato con poche risorse rappresenta un’alternativa ai viaggi auto- organizzati. Il problema è che i reinsediamenti coinvolgono in media 100mila persone all’anno a livello mondo, mentre le richieste sono dieci volte maggiori.
Altra e più controversa possibilità è l’esame delle richieste d’asilo prima dell’ingresso nella Ue, così come fanno gli Stati Uniti con il Messico. I problemi non mancano: lunghi tempi di attesa, precarietà dell’accoglienza, incertezza sulla sorte dei respinti e su chi dovrà farsene carico, se per esempio si ammalano. Ma è meglio discutere di soluzioni concrete, con le loro zone d’ombra, che limitarsi a biasimare le partenze, assegnando ai Paesi di transito il ruolo di gendarmi delle nostre frontiere. Con i costi in termini di vite umane perdute che periodicamente siamo costretti a piangere. E che non possono lasciare in pace le nostre coscienze.