Il testo che segue è un’anticipazione di un intervento inedito più ampio pubblicato sul prossimo numero di Civiltà Cattolica (n. 4096). Si tratta di una relazione che Bartolomeo Sorge, il padre gesuita morto il 2 novembre 2020, tenne il 24 novembre 2012 aprendo a Firenze il convegno «Sfide culturali e letterarie in Italia a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II». La sua riflessione era focalizzata sulle sfide agli inizi del Concilio, nei primi anni Sessanta.
Le sfide culturali con le quali la Chiesa e il Concilio Vaticano II dovettero confrontarsi nei primi anni Sessanta non nacquero all’improvviso. Erano il punto d’arrivo della lunga evoluzione della cultura occidentale moderna, le cui origini risalgono all’Illuminismo. Tali sfide si erano consolidate con la Rivoluzione francese e con la Rivoluzione industriale e furono alimentate poi nell’Ottocento, da un lato, dalle grandi correnti filosofiche moderne (idealismo tedesco, positivismo, marxismo, vitalismo nicciano, evoluzionismo) e dalla nascita delle nuove scienze umane (psicologia, sociologia, psicanalisi...); dall’altro, dall’avvento dei regimi politici costituzionali, repubblicani e democratici e dai diversi sistemi economici nati sull’onda delle ideologie di massa e delle scoperte tecnico-scientifiche. (...)
Da questa profonda trasformazione culturale e sociale nascono dunque le sfide che la Chiesa in stato di Concilio deve affrontare agli inizi degli anni Sessanta: la 'ragione', che aveva preso le distanze dalla 'fede', rivendica l’autonomia da Dio e si autoproclama essa stessa un assoluto. Si nega che scienza e religione possano incontrarsi. La politica e l’economia rifiutano ogni rapporto con l’etica; la filosofia dell’essere è abbandonata, per approdare al nichilismo e al 'pensiero debole'. Il positivismo e lo scientismo, che si respirano con l’aria, eliminano dall’orizzonte umano tutto ciò che oltrepassa i sensi o che non può essere verificato sperimentalmente. La religione è considerata (o tollerata) tutt’al più come una mera questione soggettiva, ma senza rilevanza pubblica. Siamo così al 'secolarismo' (...) e al 'relativismo etico', cioè all’eclissi del senso morale e alla negazione di ogni norma etica trascendente. Questi, in rapida sintesi, gli aspetti culturali negativi dei primi anni Sessanta, che facevano da sfondo alla convocazione del Concilio Vaticano II (...): con l’affermarsi del soggettivismo esasperato e dell’individualismo sarebbero nate le gravi contraddizioni del nostro tempo. Infatti, da un lato, la modernità ha realizzato imponenti strutture economiche, tecniche e sociali, ha moltiplicato la quantità dei beni prodotti, dando all’uomo più 'avere'; dall’altro, però, la perdita di tensione etica e di solidarietà ha generato nuove forme di povertà umana e di emarginazione, mortificando l’uomo nel suo 'essere'.
La religione non è fatta per spegnere, ma per alimentare le attese degli uomini e dischiuderle verso orizzonti di giustizia vera e di fraternità universale
Da una parte, la modernità ha creato spazi e strutture formali di libertà e di democrazia, acquisendo valori importanti, quali la laicità, la tolleranza, il pluralismo, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione; dall’altra, però, ha sprigionato forze negative che in molti casi hanno vanificato le conquiste fatte (basti pensare ai nazionalismi, alle dittature e ai totalitarismi del XX secolo). Se da un lato la modernità ha dato vita a organismi internazionali di giustizia e di pace, dall’altro però si sono moltiplicate le guerre, si è accelerata la corsa agli armamenti, è nato l’incubo atomico. Perfino gli straordinari traguardi della biologia, della genetica e delle scienze mediche, invece di essere ragione di vita, minacciano di mutarsi in ragione di morte (...).
Vediamo, dunque, le principali difficoltà che le sfide della modernità hanno creato al Concilio Vaticano II. 1) Una prima serie di difficoltà veniva dall’esterno e si tradusse nella fatica della comunicazione con la cultura moderna, che imponeva non solo l’uso di un nuovo linguaggio, ma anche il confronto su valori fondamentali, non più universalmente condivisi. Infatti, la Chiesa e la cultura moderna usano concetti e termini che apparentemente sono identici, ma in realtà differiscono profondamente. Per esempio, entrambe parlano dell’uomo e lo pongono al centro del discorso sul mondo e sulla storia. Ma la Chiesa intende l’uomo come un essere personale, orientato a Dio e a un fine trascendente; la cultura moderna invece fa dell’uomo un assoluto, il padrone di se stesso e del mondo, che crea e trasforma l’universo con le sue mani; che è norma a se stesso, senza bisogno di un legislatore divino (...).
Dal Concilio nacque la consapevolezza che l’incontro tra la fede e la cultura laica è possibile, necessario, e anche vantaggioso sia per il mondo sia per la Chiesa stessa
Parimenti, la Chiesa e la cultura contemporanea parlano entrambe di storia, ma (...). Il cristianesimo vede nella storia l’evolvere di un disegno provvidenziale di Dio, attraverso l’attività libera e intelligente dell’uomo; gli eventi certo sono mutevoli e contingenti, ma vi sono realtà e verità immutabili che danno un senso di continuità e di crescita alla storia umana. Invece, per il pensiero moderno, la storia è puro fluire, un dive- nire senza altro significato se non quello che l’uomo può e vuole dargli: non esiste nessuna verità assoluta, anzi l’uomo stesso è relativo (...). Ancora: sia la Chiesa sia la cultura moderna insistono sull’importanza centrale della ragione. Ma, per l’uomo moderno, la ragione è addirittura una 'dea': fa la verità e ne è il criterio unico e inappellabile, fino al punto di ritenere falso o inesistente tutto ciò che supera la nostra capacità logica e non è dimostrabile scientificamente. Secondo la concezione cristiana, invece, la ragione è capace di Dio, è aperta alla verità trascendente; anzi, è proprio il fine trascendente a dare senso e unità alla conoscenza umana, alle scoperte della scienza e alle acquisizioni della tecnica.
La fede, cioè, non solo non mortifica l’intelligenza, ma la purifica, la orienta, l’aiuta a scorgere la verità anche al di là dei condizionamenti 'mondani'. Infine, sia la Chiesa, sia la cultura moderna parlano di libertà, ma ne hanno una comprensione diversa. Per la cultura dominante, essere libero equivale a poter fare tutto ciò che si vuole (...) con l’unico limite di non impedire agli altri l’esercizio della medesima libertà. Secondo la visione cristiana, invece, 'libertà' è sinonimo di responsabilità nelle scelte che l’uomo compie (...) adeguandosi volontariamente alla norma etica, rispettando i diritti e le libertà altrui nel perseguimento del bene comune (...). 2) Altre difficoltà venivano invece dall’interno della stessa Chiesa e da parte dei cristiani. Anzitutto pesava il fatto che, per secoli, il messaggio evangelico era stato identificato con la cultura occidentale (...). Ciò ha impedito a lungo alla Chiesa di comprendere che alcuni valori della cultura moderna – quali la tolleranza, la libertà di pensiero e di stampa, la libertà di coscienza, l’uguaglianza di tutte le religioni di fronte allo Stato – non erano in contrasto, ma in piena armonia con il Vangelo.
Le difficoltà culturali che il Vaticano II ha dovuto affrontare in avvio venivano non soltanto dall’esterno, dalle sfide di una cultura senza Dio, ma anche dall’interno, dai ritardi e dalle paure della Chiesa
Nello stesso tempo, pesava l’atteggiamento di diffidenza che la Chiesa e i cristiani hanno nutrito istintivamente nei confronti del progresso scientifico moderno. È vero che la cosiddetta 'cultura laica' ha cercato spesso di dare alle nuove ipotesi scientifiche un significato materialistico e ateo (... si pensi all’evoluzionismo darwiniano...), ma ciò non giustifica la chiusura pregiudiziale della Chiesa contro ogni forma di approccio nuovo alla realtà e al pensiero (...). Volendo quindi dare un giudizio d’insieme sulle difficoltà culturali che il Concilio Vaticano II ha dovuto affrontare ai suoi inizi, dobbiamo dire che esse venivano non soltanto dall’esterno, dalle sfide di una cultura senza Dio, ma anche dall’interno, dai ritardi e dalle paure della Chiesa stessa. Ciononostante, il Concilio (...) ha avuto la luce e la forza d’intraprendere il coraggioso 'aggiornamento', auspicato da Giovanni XXIII, per un rinnovato annuncio del Vangelo al mondo di oggi (...).
La scelta è stata chiara e inequivocabile. Il Concilio ha maturato la convinzione che l’incontro tra il Vangelo e la cultura moderna non solo è possibile, ma è necessario, anzi è addirittura vantaggioso sia per il mondo sia per la Chiesa. Per realizzarlo non c’è via migliore del 'dialogo' e dell’'inculturazione' (...). Si tratta – specifica ulteriormente il Concilio – di acquisire una mentalità e un atteggiamento nuovi. Infatti, per dialogare occorre che ci poniamo nell’atteggiamento non solo di chi dà, ma anche di chi ascolta e riceve con umiltà i 'parecchi elementi di verità' che si trovano anche fuori della Chiesa cattolica (...), e perfino presso quei non credenti «che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora la sorgente».
Il frutto maturo del dialogo è l’'inculturazione', cioè un processo, un itinerario caratterizzato da due momenti, tra loro inseparabili: la complementarità e la critica. Si tratta, cioè, d’imparare a vivere uniti, rispettandoci diversi. Infatti, partire da quanto unisce non significa ignorare quanto divide (...). L’'inculturazione', dunque, non consiste soltanto nello sforzo di tradurre il messaggio cristiano in un nuovo linguaggio più comprensibile per gli uomini di oggi, ma soprattutto nello sforzo di aiutare ogni cultura a sviluppare le proprie potenzialità, aprendola a un umanesimo integrale. La fede non è fatta per spegnere, ma per alimentare le giuste attese degli uomini e dischiuderle verso orizzonti di giustizia vera e di fraternità universale. Ecco perché la stessa cultura moderna non può non trarre utilità dal confronto con la fede cristiana.