L’incontro tra Papa Francesco e le detenute del carcere della Giudecca a Venezia del 28 aprile è forse l’immagine più forte con cui siamo entrati in questo Primo Maggio. Tra quelle parole piene di umanità e di commozione, fortissime sono state quelle sul lavoro, che rendeva concretissima quella “dignità” intoccabile che il Papa ha messo al centro del suo breve e intenso discorso e dei suoi gesti. Le donne hanno ricambiato il dono della visita di Francesco donandogli i frutti del loro lavoro: creme, saponi, prodotti dell’orto, e una papalina. Una di loro ha detto, tra le lacrime, che il lavoro è «importante per noi», perché «dà senso al nostro vivere». E ci hanno ricordato che tra le eccellenze etiche del Made in Italy ci sono anche le molte cooperative sociali, inclusa Il Cerchio di Venezia, che consentono alle persone detenute di poter lavorare, e così iniziare, lavorando, una resurrezione.
Il carcere può essere un punto di osservazione privilegiato per capire cosa è davvero il lavoro, perché è una sorta di laboratorio vivo dove guardare nella sua essenza ciò che nella vita di tutti noi compare mescolato con molte altre realtà che confondono e annebbiano la sua natura. Nelle carceri si vede meglio il lavoro, come, e diversamente, in quel poco lavoro accidentato ma vero che resta ancora nei luoghi di guerra. Quei saponi erano “sacramento” di qualcosa ancora più importante, come se il lavoro svolto in condizioni limite cambiasse la sostanza del lavoro pur lasciando immutati gli accidenti. Quelle donne hanno donato al Papa il frutto del loro lavoro, quindi oggetti, ma in realtà il primo e il più vero dono che hanno fatto a Francesco è stato il loro lavoro, il loro poter lavorare, il nuovo “senso della vita” riscoperto aggrappate a qualcosa di vero e buono. Credo non ci sia Festa del Lavoro più bella e umana di quella che si celebra dentro un carcere dove si lavora, e dove si lavora veramente – non lavoretti finti che producono oggetti inutili, perché solo il lavoro vero ci salva, dentro e fuori le carceri.
Facciamo sempre più fatica a proteggere il lavoro, i lavoratori, i contratti, i loro diritti e doveri, perché la nostra società, drogata dai consumi e dalla rendite, non vede più il lavoro: vede i suoi segni, le sue tracce, ma ha smarrito la sua natura. Perché il lavoro non è soltanto il più grande e straordinario network di reciprocità intelligente e intenzionale della terra, il primo linguaggio con cui noi umani parliamo e diciamo a noi stessi e agli altri chi siamo, né solo l’attività con la quale arricchiamo ogni giorno la biodiversità culturale del mondo. Tutto ciò è già molto, forse moltissimo, ma non basta. Perché per capire il lavoro dobbiamo declinarlo insieme al dono, una parola non solo aliena, distante dal lavoro, ma da molti considerata nemica e mistificatrice. E invece il lavoro si apre, si svela se posto accanto al dono, lì matura bene come un kiwi in mezzo alle mele.
Nel lavoro c’è molto dono, ma non riusciamo a vederlo nascosto sotto l’involucro duro del contratto e degli incentivi. Forse non c’è luogo collettivo con più presenza di dono, di doni. E non solo nelle scuole, negli ospedali e nella cura dove forse riusciamo ancora a vederlo chiaramente, ma anche nelle officine, nelle strade, negli uffici, nei camion, nei cantieri. Il dono nel lavoro non si trova soltanto, né soprattutto, nell’ora in più che facciamo gratis, né nel favore del cambio di turno al collega. Il dono più importante è dentro la normalità feriale del lavoro, nelle ore ordinarie del contratto, nelle mansioni di tutti i giorni, perché il dono è il come svolgiamo le azioni quotidiane, è la gratuità del doveroso, quelle azioni che facciamo tutti e ovunque perché, semplicemente, siamo più grandi e degni dei nostri contratti e dei nostri mansionari.
E invece il dono ridotto a gratis è la grande vittoria del capitalismo nel mondo del lavoro, quando un giorno ci ha finalmente convinti che il regno del lavoro e del capitale dovevano essere definiti in quanto immuni dal dono. E come accade in ogni processo di immunizzazione, l’antidoto è stato inserire nel corpo un pezzettino del male da cui proteggersi. Ha così inventato i gadget, gli sconti, il volontariato aziendale, la filantropia, tutti “donuncoli”, doni omeopatici innocui per immunizzarsi dal dono vero e intero. La magia omeopatica è una delle arti più arcaiche e mai scomparse: si riproduce in piccolo la realtà che si vuole colpire (es. bambola) e si manipola il manufatto per colpire a distanza il grande nemico.
Il capitalismo di fine Novecento ha intuito che il modo più efficace che aveva a disposizione per estrarre profitti e rendite in misura straordinarie consisteva nel creare nuovi ambienti artificiali depurati dalla forza umana più sovversiva: quella della gratuità libera. Ha così prima teorizzato e poi implementato l’idea che il regno del mercato non è quello del dono, che parlare di dono a lavoro era solo manipolazione e ideologia per nascondere sfruttamento e assenza di diritti, e che quindi il lavoro non avesse nulla a che fare con la gratuità del dono. E gli ha dichiarato guerra, consapevole della sua forza destabilizzante dei contratti, delle gerarchie, dei mansionari – perché il dono vero è eccedente, ingestibile e quindi sovversivo.
C’è comunque una buona notizia. La grande campagna “dono zero” nel business non ha avuto il successo sperato. Il dono è sopravvissuto clandestino, la resistenza si è mostrata molto più tenace di quanto l’impero pensasse, sebbene oggi l’industria della grande consulenza e l’ideologia meritocratica stanno sferrando contro il dono nuovi attacchi globali a tenaglia.
E se è vero – ed è vero – che nel lavoro c’è ancora molto dono libero, allora gli imprenditori, soprattutto quelli più attenti, sanno di dipendere profondamente dal dono dei loro dipendenti; sono consapevoli che la loro fragilità più grande non si trova tanto nei mercati ma nel non poter controllare le dimensioni più importanti della libertà brada dei loro lavoratori. Sanno quindi, e imparano ogni giorno, che dipendono radicalmente da qualcosa di fondamentale che non possono acquistare, e che con il contratto comprano cose importanti ma non sufficienti per far vivere bene le loro aziende.
Sta anche qui la dignità immensa del lavoro e di ogni lavoratore: la certezza morale che il nucleo segreto della propria attività lavorativa, il suo diamante più prezioso, non è in vendita, e quindi può essere soltanto donato. E poi decidiamo di donarlo, ogni giorno, e lo doneremo anche domani, quando continueremo a lavorare da donne e uomini liberi. Perché sappiamo che il giorno in cui smettessimo di farlo, di attenerci soltanto alla lettera dei contratti, saremmo persone meno degne e libere, e quindi pessimi lavoratori.
Nella Festa dei Lavoratori dobbiamo allora meditare, mentre non lavoriamo, su cosa accade durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, osservarci e osservare gli altri nel gesto ordinario del lavoro, soprattutto in questa fase di passaggio tecnologico ed antropologico epocale.
Se nel lavoro c’è molto dono, quindi moltissima dignità e bellezza, allora anche nelle professioni che oggi stanno per essere sostitute in massa dall’Intelligenza Artificiale, c’è inscritto un infinito patrimonio di libertà, di onore, di dignità. Prima di liquidarle come ferri vecchi, dovremmo fermarci e fare due operazioni collettive, e farle in ogni impresa e in ogni istituzione: riconoscere il loro immenso valore e poi ringraziarle adeguatamente e sinceramente. Perché tra le molte incertezze di questa grande transizione, una certezza ce l’abbiamo: i robot e gli algoritmi sanno fare moltissime cose meglio di noi ma non sanno fare doni. Buona festa!