mercoledì 18 settembre 2024
40 anni dopo la strage, viaggio fra i 35mila abitanti dell’insediamento dove mancano i servizi primari e dilaga il risentimento verso Israele e l’Occidente
Alcune immagini del campo di Chatila, di fatto un quartiere di Beirut, sorto a partire dal 1948 per dare rifugio ai profughi palestinesi. A loro nel tempo si sono aggiunti i superstiti di altre guerre mediorientali

Alcune immagini del campo di Chatila, di fatto un quartiere di Beirut, sorto a partire dal 1948 per dare rifugio ai profughi palestinesi. A loro nel tempo si sono aggiunti i superstiti di altre guerre mediorientali - .

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Il rimorchio, trainato da un corpo macchina a tre ruote, straborda di bambini: maschi e femmine. Tutti quanti hanno in mano un’arma. Finta, naturalmente. Ma nuovissima. Bilal, dieci anni, declama con orgoglio: «È il regalo per l’ultimo Ramadan». Qui, nel campo di Chatila, a Beirut, sui banchetti dei giocattoli fioccano nuovi modelli di fucile: più sofisticati, più lunghi e pesanti, con il binocolo integrato. Saranno pure di plastica ma somigliano alle evoluzioni più recenti degli Ak47 di massima precisione, come i Barret, gli Accuracy International, gli M24. Asmaa, la più grande su quel carretto, a occhio e croce 13 anni, tiene in mano il fucile più importante e lo punta su di noi: «Jahudi, sa’aqtuluka», grida. « Ebrea, ti ammazzo», ci ha detto. Qualche adulto vicino le intima di stare zitta e lei si acquieta, con lo sguardo fosco.

Noi riflettiamo che in venti anni di lavoro in Medio Oriente una rabbia del genere, rappresa in una ragazzina nemmeno adolescente, non l’abbiamo vista mai. Specie tra donne, e nemmeno nei campi delle detenute dello Stato Islamico in Iraq.

Ma qui a Chatila, dove la memoria degli abitanti è scolpita e rappresa su ogni pietra zoppicante, ferma alla strage compiuta da esercito israeliano e falangi cristiane nel 1982 (era metà settembre, come ora), il rigurgito della vendetta può essere un sentimento fisiologico. In questo campo, che non ha mai garantito felici aspettative di vita, il degrado degli ultimi anni libanesi, tra pandemia, crisi economica, effetti dell’esplosione al porto del 2020, sciopero del servizio dei rifiuti e tagli all’energia elettrica, adesso si insinua lo sgomento per i 40mila morti palestinesi a Gaza. Anzi, quel che pesa qui e che causa la reazione della ragazzina con il fucile da cecchino, è l’indifferenza dei Paesi occidentali e quella politica dei doppi standard che gli abitanti di Chatila conoscono molto bene.

Khaled Abu Noor è il responsabile della polizia interna del campo che fa riferimento ad al-Fatah. Ci accoglie nell’ufficio del partito, sulla cui porta pende un immenso ritratto di Yasser Arafat su un letto di colori giallo e verde del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Khaled, che è arrivato alla mezza età, ma non è ancora particolarmente anziano, è imbarazzato per il comportamento dei bambini di Chatila e cerca di spiegarlo, mettendo in campo tutte le sue argomentazioni migliori: «Immagina quando uno di questi bambini vede scene di aerei che bombardano bambini come loro e qualcuno ha le mani tagliate e un altro ha perso il piede. C’è chi ha parenti laggiù. Chi non ha parenti fa comunque parte dello stesso popolo: è palestinese. La gente qui si arrabbia e allo stesso tempo si sente abbandonata. I Paesi arabi sono indifferenti e l’Europa, la patria del diritto umano e della democrazia, al posto di denunciare il massacro difende e sostiene Israele. Qui, al campo, non di rado è accaduto che alcune persone siano crollate psicologicamente a causa dell'orrore delle scene che hanno visto. Abbiamo dovuto portarle in ospedale. Altri si entusiasmano se i combattenti di Hamas riescono a uccidere i soldati israeliani. Per noi è resistenza».

Il campo di Chatila, a Beirut

Il campo di Chatila, a Beirut - .

Il campo di Chatila è stato fondato nel 1948 dopo la prima Nakba (esodo forzato, ndr) palestinese. L'area di estensione è inferiore a mezzo chilometro quadrato. La costruzione delle case è verticale, per circa 6mila unità abitative che contengono 35mila persone. Non vi abitano solo palestinesi ma anche libanesi, siriani, siro-palestinesi, in una gerarchia sociale dove gli ultimi della piramide sono bengalesi.

Li vediamo trafficare nel retro fumante di cucine e kebab, o raspare lo sporco da alcuni angoli di strada. La ragione di questa mixité, impensabile anche venti anni fa, è la stratificazione della società libanese degli irregolari, arrivati qui da ogni guerra circostante. Khalid spiega: «Tutte queste persone vengono a vivere al campo perché i prezzi sono più bassi e gli affitti economici. Vicino ci sono i mercati di Sabra e Abu al-Faqir, dunque molti che lavorano al mercato sono comodi qui: siamo nel centro della città. E poi dentro abbiamo una scuola elementare e due scuole medie. I servizi essenziali ci sono».

Fornire servizi sociali però non è una preoccupazione dello Stato libanese che – secondo Khalid – viene a riscuotere le tasse ma è assente. «La sicurezza nel campo la gestiamo noi del partito; le scuole sono di Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndr). Lo Stato libanese non c’è».

Un ritratto di Yasser Arafat nel campo di Chatila

Un ritratto di Yasser Arafat nel campo di Chatila - .

Soprattutto adesso, che i rapporti tra Israele e Libano sono molto tesi, gli ingressi al campo sono molto controllati dal Flp, specie se si tratta di persone visibilmente straniere: entrando a Chatila conviene dimenticarsi di trovarsi in Libano. Chatila, anno dopo anno, è sempre più una Gaza in miniatura. E chi viene proprio da lì accumula rispetto e solidarietà.

Come Dawoud Hammad Nasser, 83 anni, tanti capelli bianchi, un figlio adulto disabile e uno a Gaza. Dawoud, nel dedalo umido che chiama casa, tiene poche cose da mangiare: un po’ di ortaggi, poco riso, cipolle. Ma ha tanto caffè che mette su a tutte le ore e aromatizza con il cardamomo: «L’unico piacere della vita nella mia vecchiaia».

È nato a Nazareth e fa parte del primo nucleo di palestinesi migrati durante la Nakba. «Mio padre lavorava ad Haifa. Arrivati in Libano, ho vissuto in tenda fino agli anni Sessanta, quando siamo venuti a stare qui». Il suo sentimento anti-israeliano è inevitabilmente rabbioso: Dawood ha vissuto anche la guerra civile libanese. Per poco lui e i suoi cinque fratelli non ci rimanevano secchi. Adesso è preoccupato più per il figlio a Gaza che per il figlio disabile con cui vive: «Mio figlio a Gaza è stato imprigionato per 16 anni in Israele, e poi è stato rilasciato. È sposato, ha tre figlie e un figlio. Sono molto preoccupato per lui e la sua famiglia, perché ci sono sempre pesanti bombardamenti a Rafah. Lui stava a Beit Lahia, ma la sua casa è stata bombardata. Parlo raramente con mio figlio a Gaza perché le comunicazioni non sono sempre disponibili».

La sorella di Dawoud, invece, vive a Ramallah. Dawoud le parla in video-chiamata insieme a noi, non senza averla prima presentata: « Abita nel villaggio di Kobar: gli israeliani le hanno arrestato i figli e hanno demolito la sua casa».

La conversazione con la sorella di Dawoud va avanti per 15 minuti, con alcuni dettagli sulla vita del villaggio, parecchio tesa per la preoccupazione che i coloni possano entrarvi in qualsiasi momento. «Noi palestinesi, ovunque andiamo, o moriamo o viviamo: moriamo con onore e non viviamo nell'umiliazione. Spero che torneremo nel nostro Paese: desidero moltissimo tornarci e mangiare i frutti della mia terra».

Dawoud crede evidentemente nella Resistenza, ma non ci risponde se gli chiediamo se suo figlio abbia mai militato con Hamas o con la Jihad islamica. Per risposta, mostra la sedia a rotelle e il computer dell’altro figlio, un quarantenne che vive con lui, paraplegico. «È nato così, è stato curato sottoponendolo a tre interventi chirurgici, ma non sono stati corretti. Non c'è alcuna assistenza per lui da nessuna entità statale. Non ha disturbi mentali, solo motori. Così riesce a fare dei lavori al computer. Ma è difficile trovare le medicine: a volte sono disponibili, a volte no. Per fortuna, nel campo c’è gente che ci aiuta e che dona qualcosa». L a storia di Dawoud si replica per tante quante sono le persone del campo. I servizi (acqua, luce) nominalmente esistono e gli abitanti di Chatila li pagano ma, soprattutto l’energia elettrica (il costo della bolletta è una media di 150 dollari mensili) non viene erogata. Lo stato di abbandono è visibile a ogni angolo: cavi dell’energia elettrica pendenti, divelti, intrecciati in grumi improbabi-li, rifiuti accatastati dappertutto, perdite di fogna su ogni vicolo, e una selva di parabole satellitari appese ovunque sia possibile. Certo, è un campo, ma rispetto a dieci anni fa, la situazione è visibilmente peggiorata.

Khaled tiene a farci fare un tour, assicurandosi che non accadano episodi come il precedente: «Elettricità, acqua, Internet, satellite sono tutti servizi esistenti ma non organizzati, perché lo Stato non interferisce, qui. Nel campo ci sono duemila contatori elettrici: lo Stato viene ogni mese e riscuote le tasse, anche se non eroga l'elettricità. L’acqua è salata e non è potabile: distrugge le case, il lavandino, i sanitari, tutto. Così siamo costretti a comprare acqua dolce per cucinare e per bere. Siamo in affitto e con questo affitto abbiamo Internet e satellite. In sostanza, lavoriamo per poter pagare le bollette. Ai rifiuti pensa il servizio di Unrwa, che li rimuove. Arrivano la mattina presto e finiscono di ripulire alle 12».

La densità abitativa è impressionante: la ragione risiede nello status legale degli abitanti del campo, soprattutto palestinesi, ma anche siriani. «Non abbiamo il diritto al ritorno in Palestina – spiega Khaled, mentre attraversa la strada tra i saluti rispettosi dei passanti –. Qui lo Stato libanese ci considera stranieri, senza uno Stato d’origine: significa che abbiamo la residenza ma non la cittadinanza, dunque non possiamo comprare o vendere, anche se abitiamo da 75 anni in Libano. Dunque, quasi tutti i palestinesi restano nel campo e allargano abusivamente le case per i nuovi membri della famiglia. Semplicemente, siamo costretti a farlo».

Anche questa azione di prolungata “occupazione” è, per i palestinesi del più famoso campo libanese, “resistenza”. Una “resistenza” che non sembra dissimile, nel ragionamento, da quella dei cittadini delle classi europee meno abbienti quando si parla di diritto alla casa, ai servizi, all’assistenza sanitaria, a fronte dell’ingresso costante, in Libano, di persone in cerca di rifugio, provenienti da altri Paesi in guerra.

I siriani, soprattutto, nei confronti dei quali quasi tutte le forze politiche libanesi premono per il rimpatrio. Alain Aoun, parlamentare e nipote del più noto generale ed ex presidente del Libano Michel, leader maronita del Free Patriotic Movement, che abbiamo incontrato nella sede del partito, a Beirut, ce lo dice chiaramente: « L’economia libanese per risollevarsi ha bisogno anche di alleggerirsi del carico dei siriani, non ci importa per quale motivo siano arrivati qui».

La normalizzazione dei Paesi arabi verso il governo di Bashar al Assad sta già dando i suoi velenosi frutti. In questo quadro, i palestinesi in Libano dall’epoca della prima Nakba rivendicano uno ius primae migrationis, se così possiamo definirlo. Nabil el-Qarra – che incontriamo in una piazzetta del campo di Chatila e che sembra avere un seguito sociale, anche grazie alla sua attività di security dentro al campo – si improvvisa sindacalista, scuotendo la chioma di capelli ricci: «Noi non siamo come i siriani o i sudanesi: ci rifiutiamo di essere considerati un peso. Il palestinese in Libano lavora qui e spende i suoi soldi qui: se ha parenti in Europa sono loro a mandargli i soldi, soldi che spende in Libano. Vogliamo poi dire che anche l'Olp manda soldi in Libano, e che l'Unrwa manda soldi in Libano? Noi, come palestinesi, diamo un grande contributo all'economia libanese: che lo si riconosca da parte del governo libanese, se non può rimandarci indietro in Palestina».

Intorno a Nabil si è formato un capannello di uomini, bambini, ragazzi e qualche donna. Applaudono convinti l’uomo con i capelli ricci che ha in spalla un kalashnikov nero, vero e ben lucido.

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