Profughi di Timor Est tornano nelle loro case nel 2001.
Dopo che il Portogallo decise di ritirarsi da Timor Est, i nazionalisti guidati dal Fretilin dichiararono l’indipendenza della nazione. L’Indonesia reagì invadendo l’ex colonia portoghese ed occupandola fino al 1999. La Commissione per la Riconciliazione di Timor Est ha stimato in 18.600 le uccisioni di timoresi da parte dell’esercito di Giacarta a cui si aggiungerebbero altre 84.200 vittime per torture, malattie, malnutrizione. Le proteste congiunte della Chiesa cattolica e dei nazionalisti timoresi produssero i loro effetti a cominciare dal 1996, quando venne concesso il premio Nobel per la pace a José Ramos-Horta e al vescovo di Dili, monsignor Belo. L’Indonesia accettò di indire un referendum per decidere il futuro della regione, ma non accettò il risultato a favore dell’indipendenza. Milizie pro-indonesiane iniziarono a organizzare tumulti. Scoppiò una sanguinosa guerra civile che costrinse l’Onu ad intervenire per ristabilire l’ordine. In sole 3 settimane 1.400 persone vennero uccise e 200.000 costrette a rifugiarsi a Timor Ovest. Una forza di pace guidata dall’Australia (sino ad allora favorevole all’annessione indonesiana) ristabilì l’ordine e il 20 maggio 2002 Timor Est divenne ufficialmente indipendente.
Quando quindici anni fa, il 20 maggio 2002, Timor Est si rese indipendente, le prospettive che la nuova nazione potesse prosperare sotto l’ombra di due colossi come l’Australia e l’Indonesia erano vaghe e indecifrabili in quanto l’isola usciva da due periodi storici devastanti. Prima la colonizzazione portoghese iniziata nel 1769: attirati dalle piantagioni di sandalo e di caffè, i lusitani sfruttarono al massimo un territorio che, lontano dalla madrepatria e alla periferia delle principali rotte marittime, venne ben presto abbandonato a se stesso.
La Rivoluzione dei garofani del 1974 diede l’appiglio a Lisbona di scaricare la colonia timorese lasciando che i due principali movimenti locali, il Fretilin (Fronte Rivoluzionario per un Timor Est Indipendente) e l’UDT (Unione Democratica Timorese), si fronteggiassero in una guerra civile terminata il 28 novembre 1975 con una dichiarazione unilaterale di indipendenza che durò solo nove giorni, il tempo necessario all’Indonesia di Suharto per prepararsi all’invasione di una nazione il cui indirizzo socialista risultava troppo scomodo. La secessione timorese, inoltre, avrebbe creato un pericoloso precedente alle istanze separatiste di altre popolazioni dell’arcipelago.
L'occupazione indonesiana fu, molto più di quella europea, sanguinosa e brutale e, a partire dal 1976, Timor venne ufficialmente annessa all’Indonesia. Le risorse naturali dell’isola vennero sfruttate senza ritegno, la resistenza nazionalista – seppur mai sopraffatta – schiacciata, le libertà civili e politiche negate. Solo il Portogallo alzò, seppur flebilmente e per breve tempo, la voce contro l’invasione. Gli Stati Uniti, umiliati nel Sud Est Asiatico e terrorizzati dalla diffusione dei movimenti ad ispirazione marxista, avallarono la politica di Giacarta purché, come disse Kissinger a Suharto, «qualunque cosa facciate, la facciate presto».
La Gran Bretagna seguì l’esempio di Washington, mentre l’Australia, per non aver posto alcuna resistenza all’occupazione indonesiana, ricevette in cambio la concessione di estrazioni petrolifere al largo delle coste timoresi. Le Nazioni Unite non riconobbero l’annessione e chiesero, inutilmente, il ritiro delle truppe indonesiane dal territorio. I l piccolo popolo timorese non si diede per vinto e cominciò, sotto l’egida del Fretilin e del suo braccio armato, il Falintil, una lotta sul cui esito positivo nessuno avrebbe mai scommesso.
Neppure la cattura del comandante militare Xanana Gusmao, avvenuta a Dili nel 1992, minò la determinazione dei nazionalisti; anzi servì da miccia per far esplodere il caso Timor Est nel mondo con la complicità di elementi interni allo stesso governo Suharto, insofferenti del nepotismo e del grado di corruzione raggiunto nell’entourage del presidente. La comunità internazionale, dopo anni di silenzio, si scosse e nel 1996 assegnò il premio Nobel per la pace al leader della resistenza timorese José Ramos-Horta e all’amministratore apostolico di Dili, monsignor Carlos Ximenes Belo. Fu l’inizio del periodo più drammatico, ma, al tempo stesso, più esaltante della storia di Timor Est.
A seguito delle dimissioni di Suharto, il governo indonesiano accettò di indire un referendum appoggiato dall’Onu che decretò l’indipendenza di Timor Est. Le milizie proindonesiane, aiutate dai militari di Giacarta, instaurarono una campagna di terrore che lasciò sul campo più di mille morti e costrinse 200.000 persone (su un milione di abitanti) a rifugiarsi a Timor Ovest. L’Australia, opportunisticamente, dopo aver appoggiato l’occupazione indonesiana, guidò la missione di pace che tre anni dopo, nel 2002, portò la nascita della Repubblica Democratica di Timor Est, assicurandosi, ancora una volta, le concessioni petrolifere nel Timor Gap.
L'indipendenza, come era prevedibile, fece esplodere contraddizioni interne e le rivalità etniche tra i due gruppi principali della popolazione dell’isola, i Lorosae, est timoresi delle regioni orientali e i Loromou, est timoresi delle aree occidentali, si riacutizzarono quando, venuto a mancare il collante ideologico della lotta nazionale contro l’occupazione indonesiana, le vecchie diatribe e i dissapori familiari e tribali riesplosero.
Dissapori interni politici portarono a una serie di violenze, tra cui un tentativo di assassinio dell’allora premier José Ramos-Horta. Solo nel 2012 la situazione si ristabilì ed oggi Timor Est, dopo aver eletto a maggio Francisco Guterres come nuovo presidente e un governo guidato dal Fretilin di Mari Alkatiri in coalizione con il Congresso Nazionale per la Ricostruzione Timorese di Xanana Gusmao, si appresta ad affrontare il futuro. Il gabinetto nato dalle elezioni del 22 luglio dovrà imbastire una svolta economica e sociale per una nazione il cui budget è per il 90% dipendente dal petrolio, il 42% della popolazione è sotto la soglia di povertà e l’indice di sviluppo umano, sebbene in netto miglioramento dal 2000, la pone a livello dell’India o del Laos, ma non distante dall’Indonesia, con cui Timor Est è riuscita ad instaurare ottimi rapporti.
Il contenzioso con l’Australia sulle risorse petrolifere, le cui riserve sono valutate in 53 miliardi di dollari, sarà la principale preoccupazione in politica estera. Nel 2002 Canberra si è ritirata dall’arbitrato internazionale sui confini marittimi che avrebbe concesso a Timor l’uso pressoché esclusivo delle risorse off-shore. Oggi le estrazioni petrolifere e di gas naturale vengono divise 50-50 tra i due Stati, ma Timor, priva di raffinerie e di impianti di stoccaggio, è costretta a importare tutti i combustibili fossili, vedendo così ridotti i propri introiti. Il nuovo presidente ha già chiesto di rivedere la politica economica individuando nel turismo e nel caffè (di cui Starbucks è il principale acquirente e sulla cui coltivazione sopravvive il 30% delle famiglie timoresi) le due voci che potrebbero sostituirsi al petrolio.
Il problema è che un terzo delle piantagioni di caffè, troppo a lungo trascurate, sono oggi improduttive. I precedenti governi hanno sempre puntato su progetti a basso rischio, ma ad alto impatto ambientale, come il nuovo porto di Dili o la Zona ad Economia Speciale di Oecussi. E con una popolazione giovanissima (il 50% dei timoresi ha meno di 17 anni), Timor Est deve assolutamente trovare nuovi sbocchi economici per evitare di rivedere affacciarsi lo spettro della catastrofe umanitaria che si è appena lasciata alle spalle.