L’emergenza costringe a ripensare le pratiche didattiche. E rivalutare il digitale Il bisogno, l’emergenza, le situazioni estreme sono il momento in cui ci si accorge del valore delle cose. È vero per tante esperienze della vita: in questi giorni lo si sta sperimentando anche per la scuola, l’università, la possibilità della formazione. Lo capiscono i docenti, privati dei loro studenti; lo capiscono gli studenti, cui sono sottratte le relazioni con maestri e amici. Occorre partire da qui per provare a comprendere il significato di quello che da più parti, anche se impropriamente, viene definito home schooling. Si fa lezione, si impara, si studia a casa, ma non perché si sia scelta questa situazione come alternativa alla scuola (è quel che capita nell’educazione parentale, l’home schooling vero), bensì perché lo stato del contagio ci ha costretti a questo. Sarebbe più opportuno parlare di smart learning, o di smart teaching, dove lo smart allude alle possibilità che la tecnologia ci garantisce di surrogare l’impossibilità della presenza. Gli ambienti di videocomunicazione, le piattaforme eLearning, le applicazioni per l’apprendimento a distanza come un modo per non rimanere deprivati di tutto ciò che la scuola, dall’infanzia all’Università, rappresenta.
L’esperienza non è nuova nel nostro Paese, anche se forse ce ne siamo dimenticati. La formazione per corrispondenza nel secondo Dopoguerra aveva risposto al bisogno di manodopera specializzata. La Scuola Radioelettra di Torino rappresenta in questa prospettiva un momento importante della nostra storia. Come Telescuola, il protocollo di intesa tra la Rai e il ministero dell’Istruzione che aveva pensato alla televisione come strumento di massa per la lotta all’analfabetismo e l’innalzamento dei livelli culturali della popolazione: il volto del maestro Manzi e le trasmissioni di Non è mai troppo tardi ne sono una pagina indimenticabile. E poi la stagione della FAD, la formazione a distanza, la nascita dei primi centri universitari alla fine degli anni 90 – il CARID all’Università di Ferrara, il CEPaD all’Università Cattolica di Milano – l’esperienza del consorzio Nettuno fino al decreto Moratti/Stanca che sancisce la nascita delle università telematiche. Nel frattempo la scuola, con il Piano Nazionale per l’Informatica e il primo Piano di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche, tra anni 70 e 80 aveva cominciato a ridurre il gap con gli altri Paesi europei. Da lì erano seguite le stagioni del multimedia in classe, delle Lim, delle classi 2.0, con l’Indire a svolgere una funzione importante nell’affermare, anche nella formazione degli insegnanti, la cultura dell’eLearning e dell’uso della tecnologia. Occorre ricordare questi passaggi per capire che quel che di positivo sta succedendo oggi tra classi di scuola e aule universitarie non è frutto del caso ma di un lungo percorso di preparazione. Anche se poi, nell’opinione diffusa, alla formazione a distanza si è finito per associare l’idea di qualcosa che ha meno valore rispetto alla formazione fatta in aula, in presenza.
Ma cosa sta succedendo oggi? Stante lo stop alle attività didattiche in presenza, il ricorso alla tecnologia sta garantendo che la scuola e l’università non si fermino. Certo, la situazione è a macchia di leopardo, c’è chi lavora più e meno bene, ci sono esperienze di eccellenza e altre che andrebbero riviste. Ma è importante che tutti ci stiano provando e, soprattutto, che ci si accorga che non è solo un problema di tecnologia. Non basta mettere gli studenti davanti allo schermo di un computer o assegnare loro compiti attraverso il registro elettronico. Occorre che tutto questo si inserisca all’interno di una progettazione didattica, si avvalga di una regia metodologica. L’apprendimento on line richiede un’attenzione particolare allo studente, ne vanno gestite la motivazione e l’attenzione. Non basta 'mandare in onda' la lezione e continuare a parlare come si sarebbe fatto in aula. Va studiata una sceneggiatura: materiali da mettere a disposizione prima, indicazioni di lavoro precise, ricorso alla comunicazione sincrona (chat e videocomunicazione) per chiarire i dubbi, discutere i problemi. E poi si tratta di favorire la cooperazione tra gli studenti: il vero valore aggiunto della tecnologia è la possibilità della condivisione, di lavorare in gruppo. Si tratta di una modalità di lavoro che già dovrebbe appartenere alla normale didattica degli insegnanti e che ora le condizioni eccezionali in cui siamo costretti a muoverci stanno rendendo necessaria. Qui troviamo un primo aspetto di grande rilievo. È probabile che il virus stia riuscendo laddove anni di politiche educative hanno fallito: costringerci tutti a riflettere sulle nostre pratiche didattiche, studiare nuove forme per renderle efficaci, fare tutto questo in vista dello studente.
Si scopre così che il digitale si può rappresentare diversamente. Non è solo ciò che erode spazio alle nostre relazioni, indebolisce i legami sociali, genera una vera e propria dipendenza. Al contrario il digitale può riallestire il tessuto sociale, creare le condizioni perché le persone si riavvicinino, generare nuove reti di rapporti e di significati. Le tecnologie diventano allora tecnologie di comunità. Significa porsi il problema del divario ed eliminarlo: accorgersi che molti non hanno connessione, non hanno strumenti, non posseggono gli alfabeti, e creare le condizioni perché questi impedimenti siano superati. Significa chiedersi come fare inclusione nei confronti di chi fa fatica, soffre una disabilità, sconta la differenza della lingua e della cultura: sono di comunità le tecnologie se sanno trasformare tutto questo in una diversità che arricchisce e non in un ostacolo che aggiunge separazione. Significa attivare i territori. Le 'aule digitali' sono aperte: aperte ai genitori, alla comunità locale con le sue risorse, alle altre agenzie educative. Da questa crisi possiamo uscire più forti, più coesi, più uniti. È in questi momenti che il capitale sociale può essere ripristinato e questo nel caso della comunità cristiana aggiunge valore al valore.
C'è un rischio. Che finita l’emergenza si torni alla normalità: la vecchia didattica trasmissiva, il 'bla bla bla' per dirla con Paulo Freire. Occorre lavorare a che non succeda. E per farlo serve pensare che la qualità della relazione non è una questione di formati o di strumenti e che il digitale non è un’alternativa alla presenza ma una sua dimensione. La relazione è il risultato dell’intenzionalità educativa, è la consapevolezza che l’altro è al centro della mia attenzione. E il digitale può essere uno dei modi per mantenercelo. Lo è se diviene carezza nei momenti di sconforto, supporto nei momenti di difficoltà, legame nelle situazioni di solitudine, presenza quando si sperimenta l’assenza. Capitava già prima del virus: nelle scuole in ospedale, nei progetti di istruzione domiciliare, nelle scuole dei piccoli plessi, in tutte quelle situazioni in cui tanti docenti anonimi, senza protagonismi, hanno sempre dato testimonianza di cosa significhi insegnare.