sabato 13 agosto 2016
«Sapere di Rouen, conoscere la sorte di tanti fratelli cristiani, ci richiama all’urgenza di non sciupare neppure un attimo del tempo di grazia che ci è dato per soffrire accanto a chi è costretto a stare in trincea».
 Sull'altare quella luce che dà un senso della vita buono
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Si va su a lungo, da Rimini, per le colline del Montefeltro, verdissime, lungo strade tortuose e semideserte, per arrivare a Pietrarubbia, un borgo di appena 680 abitanti. Il monastero delle Monache della Adorazione Eucaristica, fondato nel 2007 da suor Gloria Riva nella spiritualità della Beata Maria Maddalena dell’Incarnazione, è nell’ex convento dei Cappuccini, cinquecentesco. Boschi e prati intorno, e un vento che sembra l’ultimo alito del mare. La cappella, povera e solida nelle sue pietre nude, racconta di una vita spartana, condotta per secoli dai frati. C’è l’orto, accanto, e poco lontano il pollaio con le galline e le oche, e le capre: tutto in quel vitale disordine dei luoghi in cui si lavora e si fatica. Non dovevano essere come questo, pensi, i monasteri di un tempo, con le stalle e le bestie da cui traevano sostentamento? E un soffio d’aria antica a Pietrarubbia subito ti investe e ti conforta: un luogo semplice e intensamente vivo.

Entri nella chiesa, dominata da una pala secentesca e immersa in una tenera ombra. Ma una luce fulgente splende dall’altare: l’ostensorio d’oro del Santissimo, illuminato in modo da farne il fulcro che orienta la chiesa. Affascina, quel bagliore lucente nel buio, e già dalla sua evidenza appare chiaro che è Lui, il padrone di casa. La porta della cappella è spalancata a chiunque venga. «Questa è una clausura costituzionale – spiega don Gabriele Mangiarotti, parroco qui a Pietrarubbia – una clausura vissuta non tanto come fatto ascetico, quanto come garanzia di una presenza davanti al Santissimo, affinché il popolo possa venire ad adorare in ogni momento».

E si avverte qui tra le colline del Montefeltro questo piccolo recinto sacro, dono gratuitamente offerto a chi passa, o viene da lontano: l’adorazione eucaristica ininterrotta, dal mattino a sera, condotta a turno dalle dieci monache. Arriviamo che è mezzogiorno: l’Ora Sesta, e nella chiesa ti colpisce immediatamente la bellezza delle voci delle monache. Un marchio di bellezza che segna la giornata che passerai qui: come se ogni gesto dovesse essere bello, per testimoniare a chi viene un’altra bellezza. Poi, è l’ora di colazione. Mangiamo con altri ospiti nel refettorio, spiati dalla finestra da una gatta gentile che attende fiduciosa un boccone. Ce ne sono altri, di gatti, in giardino, protetti e nutriti dalla vivandiera, suor Adriana, una gioviale ungherese. E anche questi ospiti dai passi felpati ci fanno sorridere: testimoniano di un amore alla vita, tutta intera.

Ora nelle cucine del convento si rigoverna. Rumori di piatti, e, improvvisa, una risata; poi le voci di due monache che cantano. Ti meravigli: quante sono le donne che cantano, mentre lavano i piatti? La letizia emana da queste vecchie mura, abbandonate dai Cappuccini dopo il Duemila ed ereditate delle sorelle di madre Gloria. Un convento come una grande casa, nelle cui stanze si accumulano quadri, libri, ricordi – proprio come in una casa. Si avverte l’impronta vitale e vulcanica di Gloria Riva. Eccola che ti viene incontro e ti abbraccia, anche se non ti ha mai visto. Sotto al velo la faccia da lombarda, schietta, aperta.

Aria da intellettuale, per niente. Si sente la bambina cresciuta nei cortili, benché di ottima famiglia, figlia di agiati commercianti di tessuti monzesi. E non si può allora non chiederle della sua vocazione. La storia intensa di una ragazza del ’59, educata alla fede, che nei tumultuosi anni ’70 al liceo tende, come molti, ad allontanarsene; sfiora la cultura hippy, vede nei suoi amici l’effetto devastante della droga, frequenta i giovani comunisti, insomma conosce l’universo che marchia la generazione del dopo ’68.

Finiti gli studi artistici lavora come fumettista, disegna per il Monello e l’Intrepido, poi nel teatro, e nel mondo della moda. Ma anche in questo mondo apparentemente lontano qualcosa di forte la governa e la conduce. Già fidanzata, in un pellegrinaggio con l’Unitalsi a Lourdes avverte la pressione della vocazione monastica. Riflette, medita, esita. «Poi, una sera in Brianza con il mio fidanzato stavo andando in discoteca, quando a un semaforo un’auto travolge in pieno la nostra. Lui è quasi illeso, io resto gravemente ferita e perdo conoscenza. Ricordo distintamente di avere pensato: sto morendo. Ma me lo sono detto con una strana pace, accettando il mio destino. In quel momento ho visto davanti a me una luce luminosissima, e questa luce era quanto di più bello e desiderabile io avessi mai visto, e io non volevo altro che poterci entrare. Nello stesso istante però ho visto anche me stessa, e mi sono percepita così difforme da quella luce, così inadeguata. Eppure, è stato un momento di felicità: la certezza, in quella luce, di non essere un numero, di essere amata e voluta, di avere una vocazione e una missione».

A scolti madre Gloria e taci, nel silenzio è come se un mistero buono premesse fra queste vecchie mura. «E poi – continua lei – ho capito che, fuori dalla volontà di Dio, non c’è felicità. Ho sentito chiara la chiamata alla vita claustrale, legata alla contemplazione della Eucarestia». Nel convento monzese delle Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento, dove entra nel 1984, Gloria studia la Scrittura, la patristica e l’ebraico, e in queste chiavi approfondisce la sua passione, gli studi di arte. Si dedica agli archetipi presenti nella cultura medioevale, decifra i segni nascosti delle opere conosciute al liceo. Nasce così la sua straordinaria capacità di parlare di arte. Anche qui a Pietrarubbia tiene lezioni, molto frequentate. «E mi accorgo – dice – che io parlo di arte, ma chi ascolta avverte altro, avverte che si parla di Dio. Quella della bellezza, nel nostro tempo, mi pare la carta vincente, la chiave per entrare in dialogo con il prossimo, benché lontano. Infatti, quando si arriva alle domande, non si parla più di arte ma della vita, e del suo senso. Direi che alcuni vengono qui quasi come mendicanti di bellezza».

 

«Io credo – continua madre Gloria – che il monachesimo e la vita contemplativa siano chiamati a salvare il mondo, come già avvenne nell’anno Mille con San Bernardo e Ildegarda di Bingen. È una vita, quella monacale, che ti riporta alle tua natura profonda, alla memoria di ciò che ti ha originato. E sei anche per gli altri, nell’“hortus conclusus” del monastero, un fattore di memoria. È una vita la nostra che offre ogni istante contro il mistero dell’iniquità: quella realtà di cui poco si parla, ma che esiste e opera – come testimonia anche questa sanguinosa estate in Occidente. Sapere di Rouen, conoscere la sorte di tanti fratelli cristiani, rende evidente il nostro essere qui per tutti. Ci richiama all’urgenza di non sciupare neppure un attimo del tempo di grazia che ci è dato per vivere con radicalità il quotidiano e offrire e soffrire ogni cosa accanto a chi, come i martiri contemporanei, è costretto a stare in trincea. Nell’Eucaristia li raggiungiamo e li consoliamo, davvero». Che cosa vengono i pellegrini a cercare qui da voi? «Cercano se stessi, e il senso della loro vita. Vengono a raccontarci di sé, come in una confessione. A fare esperienza concreta del mistero di Dio, cosa che non è possibile in una fede puramente intellettuale, o moralista».

Alle 18, Vespri. Ora fai caso anche agli strumenti che le monache suonano. Strani strumenti: si chiamano ghironda, dulcimer, salterio ad arco, hung drum. Sono copie di strumenti medioevali, che nelle mani delle suore generano armonie remote, come quelle del Laudario da Cortona. Le suore studiano canto con un Maestro amico, che viene a fare loro lezione. Lo si avverte, nelle belle voci educate. Compieta, a sera, viene recitata nella cappella del coro, piccola, di legno antico, dietro all’altare. E queste voci e questi volti di donne ti rasserenano, come un commiato al giorno che muore. Sono giovani, quasi tutte, le monache di Pietrarubbia, alcune ancora ragazze, i begli occhi dolci e vivi. Che mistero, Vera, Danuta, Teodora, Karola, la novizia Giulia e le altre, giovani donne liete nel loro perpetuo adorare.

Scende la notte, con il suo grande silenzio. Ed è ancora fonda, quando già cantano, trionfanti, i galli. Il Mattutino, all’alba, nel coro è accompagnato dai primi raggi del sole che illuminano le antiche icone sui muri. A Messa, una dozzina di persone che vengono qui dai paesi attorno. Finita la funzione, don Gabriele pone il Santissimo nell’ostensorio, per l’adorazione. Di nuovo quel cuore di luce domina la penombra della chiesa e la rischiara. Ti viene in mente allora la luce che Gloria ti ha detto di avere visto nel buio, nell’istante in cui pensava di morire, quella luce così straordinaria e seducente. Ma, le domandi poi, ha forse a che fare quella luce che hai visto con questa, che adorate ogni giorno? Lei sorride e annuisce. Te ne vai da Pietrarubbia riconciliata, tra le tante traversie e paure di questi nostri giorni, con un senso della vita buono.

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