venerdì 22 giugno 2018
Dalla Somalia al Sahel, si estende l'influsso di Ankara. E l'Europa sembra non capire
Erdogan in una foto dall'archivio Ansa risalente al 2015

Erdogan in una foto dall'archivio Ansa risalente al 2015

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Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è sempre più convinto che l’Africa possa rappresentare per il suo Paese una straordinaria opportunità per affermare un espansionismo dalle molteplici sfaccettature. Se da una parte sono evidentissimi gli interessi economici, dall’altra occorre tenere in considerazione il quadro geostrategico che il leader turco ha in mente, dalla duplice valenza politica e religiosa. Si tratta di un indirizzo teocratico, cioè la velleità da parte di Erdogan – atteso alla riconferma nelle elezioni presidenziali e parlamentari in calendario domenica – di affermare una versione riveduta e corretta del 'paradigma ottomano' in terra africana: un impero che governò anche su gran parte del Nord Africa, in Sudan e in Somalia. Ma questo sogno neocesariano, esaltato dal surplus ideologico di cui è infarcita la sua politica, rappresenta per l’Africa subsahariana una variabile che le cancellerie occidentali stanno sottovalutando.

Emblematico è quanto avvenuto nella capitale sudanese, Khartoum, lo scorso dicembre in occasione della firma di ben 13 accordi con il presidente Omar Hassan al-Bashir, che puntano nel complesso a portare gli interscambi tra le due economie a 10 miliardi di dollari all’anno dagli attuali 500 milioni. Uno di questi accordi rappresenta la cartina al tornasole della strategia di Erdogan. Il leader di Ankara si è impegnato a ristrutturare l’assai malandato centro urbano dell’isola di Suakin e a finanziarne lo sviluppo turistico locale in cambio dell’installazione – con un contratto di 99 anni – di una grande base militare, ripristinando i vecchi moli dell’impero ottomano sul Mar Rosso. L’accordo tra Sudan e Turchia non è certo ben visto da Israele, dall’Egitto e neppure dai sauditi considerata la stretta alleanza tra Ankara e il Qatar.

E per questa ragione il governo turco e quello sudanese, stando alle dichiarazioni ufficiali, hanno sfumato il significato militare della partnership preferendo esaltarne il valore commerciale e turistico. Suakin si trasformerà in una sorta di hub del turismo musulmano, consentendo ai fedeli in pellegrinaggio verso La Mecca una piacevole tappa. Da rilevare che poche settimane dopo la visita di Erdogan in Sudan il Qatar ha stipulato con il governo di Khartoum un accordo del valore di 4 miliardi di dollari per la riapertura del porto commerciale di Suakin. Ankara ha approvato questa iniziativa che trova sinergica con i propri investimenti nella piccola isola del Mar Rosso. Il progetto, che dovrebbe terminare nel 2020, vede che il Qatar lo finanzi in toto, consentendo comunque al Sudan di mantenere il 51% delle azioni e dei profitti che deriveranno dalla gestione dei traffici commerciali che faranno capo al nuovo scalo.

Sta di fatto che l’asse turco-qatariota-sudanese, i cui governi condividono il progetto della diffusione dell’islam politico secondo l’ideologia dei Fratelli musulmani, sortisce sempre di più, solidificandosi, un effetto destabilizzante nel Corno d’Africa. Vi è infatti una crescente tensione tra il Sudan e l’Eritrea, che si è schierata con l’altra coalizione in cui è ora diviso il mondo arabomusulmano: quella guidata dall’Arabia Saudita, di cui fanno parte anche gli Emirati arabi uniti (Eau) e l’Egitto. L’Eritrea ha, infatti, concesso agli Eau l’uso del suo porto di Assab e i permessi per la costruzione di una base militare nelle vicinanze. Sullo sfondo, sempre nella regione, Ankara sta realizzando a tutto spiano basi in Somalia. Ad esempio, lo scorso settembre è stato inaugurato a Mogadiscio un grande centro di addestramento militare, aumentando così la presenza nell’Oceano Indiano in un contesto in cui l’alleanza di cui sopra tra Turchia e Qatar sta facendo sempre più della Somalia una sorta di satellite militare.

Ma le mire egemoniche di Erdogan vanno ben al di là del Corno d’Africa e interessano l’intero continente. La dicono lunga le sue frequenti visite nell’Africa subsahariana. Nel 2015 è stato infatti in Somalia, Etiopia e Gibuti; nel 2016 in Uganda e in Kenya; nel 2017 in Sudan e in altri 5 Paesi africani, mentre quest’anno è già stato in Algeria, Mauritania, Senegal e Mali. E quando viaggia il presidente turco è, ovviamente, accompagnato oltre che da diplomatici da una corposa delegazione di uomini d’affari. A questo proposito, è bene ricordare che nel 2005 alla Turchia è stato accordato lo status di osservatore all’interno dell’Unione Africana, mentre nel 2007 il governo di Ankara è stato riconosciuto come membro non regionale alla Banca africana dello sviluppo, uno status che consente alle imprese turche operanti in Africa di aggiudicarsi l’appalto di importanti progetti infrastrutturali.

Quello che però, a tutti gli effetti, può essere considerato l’anno di maggior successo nelle relazioni turcoafricane è il 2008, all’inizio del quale la Turchia fu dichiarata partner strategico dell’Unione Africana (Ua). Nell’agosto dello stesso anno, al termine del vertice per la cooperazione Turchia-Africa, con la partecipazione di 49 Stati africani, fu avviato un processo di cooperazione stabile e duraturo sancito dall’adozione della Dichiarazione di Istanbul. È evidente che la cooperazione con l’Africa per Erdogan è un obiettivo a tutto campo che coinvolge anzitutto la diplomazia, come dimostra il fatto che ha intenzione di incrementare il numero delle rappresentanze diplomatiche nel continente, portando – entro tre anni – le ambasciate dalle attuali 41 a 54, come egli stesso ha annunciato recentemente.

Allora cosa sta veramente bollendo in pentola? Durante una conferenza stampa con l’omologo mauritano Mohamed Ould Abdul Aziz a Nouakchott, capitale della Mauritania, Erdogan ha dichiarato apertamente di voler promuovere «un nuovo ordine mondiale». Francamente, neanche i cinesi sono arrivati a tanto e comunque la Turchia sta dando filo da torcere in Africa anche all’Impero del Drago. Basti pensare alla linea ferroviaria di 522 chilometri che in Tanzania collegherà presto Dar es Salaam alla capitale Dodoma, realizzata da imprese turche. L’attuale presidente tanzaniano John Magufuli, eletto nel novembre 2015 e diffidente nei confronti delle commesse cinesi, ha rotto l’accordo che il suo predecessore aveva stipulato con la Exim Bank di Pechino, che prevedeva un finanziamento di 7,6 miliardi di dollari. Decisiva in questo senso è stata la visita del presidente Erdogan, al quale Magufuli ha chiesto sostegno finanziario per il progetto che prevede un graduale rinnovamento ed estensione della rete. Da lì in poi i tempi sono stati brevissimi: il governo tanzaniano ha sottoscritto un contratto con la società turca Yapi Merkezi e nelle intenzioni del governo il nuovo binario potrà essere inaugurato già nel 2019.

Tutte queste mosse, inutile nasconderselo, evidenziano il crescente interesse della Turchia verso un continente dalle grandi potenzialità. E proprio mentre altre potenze mondiali – Cina in primis – si stanno riposizionando in Africa per le straordinarie ricchezze del suo sottosuolo, Erdogan non intende restare indietro e punta a sostenere anche così il dinamismo economico del suo Paese. Cooperazione bilaterale rinforzata commerciale e militare, annullamento dei reciproci visti d’affari e commesse da milioni di dollari sono dunque gli ingredienti principali della corsa turca all’Africa.

Un mix di diplomazia e partenariati economici che sta trasformando la Turchia in un nuovo attore di peso in Africa. La penetrazione è a tutto campo e interessa anche la regione del Sahel. Qui Ankara ha deciso di allestire un nuovo dispositivo militare congiunto con i governi del Mali, della Mauritania, del Burkina Faso, del Niger e del Ciad. È dunque evidente che la Turchia mira ad affermarsi in Africa, soprattutto in zone di forte interesse geopolitico come il Maghreb, il Corno d’Africa e il Sahel, altamente strategiche per gli equilibri del Medio Oriente e dell’intero scacchiere africano. Da rilevare che in questo contesto, l’Unione Europea, tanto preoccupata per il fenomeno migratorio dalla sponda africana, continua a sottovalutare il ruolo di Erdogan, sempre più Gran Pascià d’Africa.

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