L’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping è un segno di pace mentre il mondo brucia nelle fiamme della guerra. È un’importante conferma della speranza suscitata dal loro primo incontro in presenza esattamente un anno fa, a Bali, che fece balenare l’uscita dall’incubo di una nuova guerra fredda. Il mondo non ha certo bisogno di una contrapposizione tra le due più grandi potenze che potrebbe portare a esiti devastanti: incontrandosi di nuovo, Biden e Xi mostrano che è possibile un bipolarismo responsabile tra Usa e Cina pur dentro un multipolarismo ormai irreversibile.
Alle spalle di questi incontri c’è stato un lungo percorso per cui sembrava che i rapporti sinoamericani potessero solo peggiorare. A partire dalla crisi economica del 2007 questi rapporti hanno cominciato a incrinarsi. Con la presidenza Trump il conflitto si è aggravato sempre di più finché da entrambe le parti si è cominciato a parlare di nuova guerra fredda. Le opinioni pubbliche americane e cinesi sono diventate sempre più, rispettivamente, anticinesi e antiamericane. Il primo incontro tra Blinken e Sullivan e i loro omologhi cinesi si è risolto in un violento litigio pubblico.
Nel 2022 alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, Pechino ha reagito con una prova di forza militare di una gravità senza precedenti. Dopo l’incontro di Bali, l’incidente del pallone spia cinese nei cieli americani sembrava dover portare nuovamente allo scontro. Ma è sempre possibile resistere alle spinte del momento e alle pressioni delle opinioni pubbliche. Anzi, sulle grandi questioni è ciò che devono fare i veri statisti.
Sia l’incontro di Bali sia quello di San Francisco sono stati lungamente preparati, con pazienza e tenacia, dalle diplomazie americana e cinese. L’attività diplomatica è generalmente disprezzata in un tempo in cui tutto deve essere pubblico, urlato, conflittuale. Ma questi incontri sono la dimostrazione che in un mondo sempre più in guerra c’è un grande bisogno di una diplomazia vera, robusta, lungimirante. Non quella degli accordi per salvare gli interessi di pochi, degli inganni tra potenti alle spalle dei popoli, del cinismo del tanto peggio-tanto meglio.
Ma una diplomazia basata su volontà di incontro, sforzo di comprensione, capacità di sopportazione. Soprattutto, fondata sulla convinzione che “la pace è il destino” del mondo, come ha detto alla Cei il cardinale Matteo Maria Zuppi: solo questa idea può ispirare visioni che diano alla diplomazia lo slancio necessario. Gli incontri tra Biden e Xi non si richiamano (ancora?) a una visione compiuta, ma si intravede una prospettiva. Se i contrasti tra Usa e Cina vengono da lontano, occorre un’alternativa che parta anch’essa da lontano.
La tela della pace ha cominciato ad essere lacerata subito dopo la caduta del Muro di Berlino, con un susseguirsi di occasioni perse: la mancata stabilizzazione di rapporti amichevoli tra Russia ed Europa, la non realizzazione degli Accordi di Oslo tra Arafat e Rabin, l’indifferenza verso il genocidio in Ruanda... Nel clima degli anni Novanta, Samuel Huntington profetizzò lo scontro di civiltà non solo tra Occidente e Islam ma anche tra Occidente e Cina. È da allora che la comunità internazionale si è messa sulla strada della guerra ed è riprendendo quelle occasioni perse e rifiutando lo scontro di civiltà che bisogna ripartire. Biden che incontra Xi Jinping è lo stesso che ha raccomandato a Netanyahu – fermo restando il diritto di autodifesa di Israele – di non ripetere gli errori degli Stati Uniti dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
È la strada indicata da tempo dai Papi e dalla Santa Sede. Giovanni Paolo II si è opposto fermamente alla guerra in Iraq e ha ripreso con forza il dialogo con Pechino. Pur tra problemi e difficoltà, i suoi successori hanno continuato su questa strada. Papa Francesco ha resistito a chi lo voleva allineato ad un Occidente contrapposto a tutto il mondo ed è la sua voce ad insistere opportune et inopportune per la pace in Ucraina. La costruzione di una grande alternativa alla “terza guerra mondiale a pezzi” è un dovere anzitutto verso i bambini innocenti per cui bisogna piangere indipendentemente dalla nazionalità, come ha detto Liliana Segre.