Non so se l’idea che mi sono fatto della decrescita sia la stessa dei suoi teorici, ma in quell’espressione scorgo tre messaggi importanti.
1) Non si può perseguire la crescita infinita in un pianeta dalle risorse limitate.
2) La corsa dietro ai consumi compromette la qualità della vita per strangolamento delle relazioni.
3) Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo ridurre consumo di materia e produzione di rifiuti.
Ma, enunciati i princìpi, subito spuntano i nodi. Ad esempio in un mondo squilibrato come quello in cui viviamo, l’invito a ridurre non può valere per tutti, ma solo per gli opulenti, quelli che consumano 100 chili di carne all’anno, che possiedono più di un’auto ogni due persone, che producono più di 500 chili di rifiuti all’anno. Quanto ai tre miliardi di miseri, hanno diritto a mangiare di più, vestirsi di più, studiare di più, curarsi di più, viaggiare di più, ma potranno farlo solo se i gli opulenti accettano di sottoporsi a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Dunque tutto bene con lo sviluppo avviato in Cina, India o Sudafrica? Non proprio considerato che agli impoveriti arrivano solo le briciole sotto forma di consumismo spazzatura. La verità è che sia il Nord che il Sud hanno bisogno di un nuovo modello economico più orientato all’equità, con il Nord in posizione di maggiore difficoltà perché deve fare due operazioni in una: ridurre e riequilibrare.
Premesso che l’efficienza tecnologica non è sufficiente a realizzare il miracolo, la domanda che si pone per chi si occupa non solo di ambiente, ma anche di sopravvivenza delle persone, è come operare la trasformazione senza mietere vittime. Non a caso fra gli oppositori alla decrescita ci sono i sindacati preoccupati per i posti di lavoro in un sistema dove la forma prevalente di lavoro è quella salariata fortemente ancorata alla crescita dei consumi. In fin dei conti, il grande punto interrogativo è se sia possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e sicurezza sociale, concetti che sarebbe meglio ribattezzare piena partecipazione lavorativa e vita sicura per tutti.
La risposta è sì, che si può, precisando che la battaglia vera non è per la riduzione tout court del Pil, ma per una ristrutturazione di produzione e consumo ben sapendo che il sistema in cui viviamo ha sovraprodotto per il consumo privato e sottoprodotto per il consumo pubblico. Forse la parola giusta è 'spostamento' a significare che dovremo ridurre certi settori e ampliarne altri: meno automobili più treni e autobus, meno strade più ferrovie, meno acqua in bottiglia più acquedotti, meno centrali a carbone più pannelli solari, meno case di nuova costruzione più ristrutturazione di quelle esistenti, meno pubblicità più scuola, minor uso di materie prime più manutenzione e più recupero di rifiuti, meno importazione di cibo più agricoltura locale.
Di sicuro una società che dispone di meno deve decidere cosa privilegiare e personalmente non ho dubbi che la priorità va data ai bisogni fondamentali: acqua, cibo, alloggio, energia, sanità, scuola, comunicazione, trasporti. Bisogni da garantire in maniera gratuita perché appartenenti alla fascia dei diritti e proprio per questo di esclusiva competenza dell’economia pubblica, che funzionando sul principio della solidarietà collettiva è l’unica forma organizzativa che può praticare la gratuità.
Per questo credo che un serio progetto di ridimensionamento deve depotenziare il mercato e rafforzare l’economia pubblica, smettendo di concepirla come una struttura parassitaria che succhia ricchezza. Al contrario deve viverla come uno spazio produttivo comune che oltre a garantire i bisogni fondamentali, garantisce un’occupazione minima per tutti. Certo, per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso, in un contesto di economia rallentata, bisogna inventarsi altri modi di fare funzionare l’economia pubblica, che non sia più quello fiscale.
Potrebbe essere il servizio civile obbligatorio, la tassazione del tempo in alternativa alla tassazione del reddito, il lavoro comunitario in cambio di un reddito di cittadinanza. Le soluzioni tecniche alla fine si trovano, il problema è culturale. Bisogna saper ripensare il lavoro, il ruolo del mercato, la funzione dell’economia pubblica, le forme di contribuzione all’economia collettiva, l’intreccio fra economia locale ed economia globale, il ruolo e il governo della moneta. Questi sono i nodi da affrontare per una società del benvivere, termine più appropriato per una società che dopo avere superato la fase di dimagrimento, cerca la giusta dieta per mantenere il peso forma. Ci serve, dunque, politica alta, tenendo a mente l’avvertimento di Alex Langer: «La conversione ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile».