Quattordici alpini italiani feriti lunedì in Kosovo, nuovo focolaio delle tensioni per procura tra Mosca e la Nato. Il settimo decreto per l’invio di armi in Ucraina portato ieri pomeriggio al Copasir, con contenuti secretati. Visto con la lente italiana, lo scenario che si è materializzato nelle ultime ore non sembra quello favorevole ad avviare la costruzione di un clima di pace. Eppure, bisogna guardare sotto la superficie e cogliere alcuni segnali per comprendere che lo sforzo volto a invertire la tendenza ha più opportunità di successo oggi che qualche mese fa.
La missione che la Santa Sede ha reso ufficiale dopo quasi 15 mesi di guerra e che porterà il cardinale Zuppi a incontrare rappresentanti delle parti in conflitto si inserisce in uno scenario bellico in evoluzione, ma senza una chiara inerzia a favore di una delle due parti. L’aggressore e l’aggredito fanno i conti con la stanchezza e le perdite crescenti, la controffensiva ucraina è lenta a partire (salvo smentite a breve termine, e comunque qualcosa avverrà), tra la necessità di ulteriori forniture di armamenti e le cautele degli Stati Uniti, decisi a sostenere la resistenza e insieme timorosi di una escalation fuori controllo.
Non sono mai da confondere le ragioni del Paese invaso con i torti di chi ha violato la legalità internazionale, la sovranità di una nazione indipendente e, soprattutto, ha inflitto lutti e distruzioni su una scala che l’Europa non vedeva dalla Seconda guerra mondiale. I combattimenti non possono però durare all’infinito. I droni sulle città – ieri è toccato per la seconda volta a Mosca, centinaia di volte è toccato a centri ucraini grandi e piccoli – non spostano gli equilibri strategici, mentre provocano, in misura diversa su due versanti, morti, danni e paura.
La Cina ha messo in campo un proprio inviato e prova a svolgere un ruolo nella soluzione della crisi che per ora stenta a decollare per le preoccupazioni di Zelensky che sia troppo accomodante con il Cremlino e le sue aspirazioni espansionistiche. Lo stesso vale per l’Europa e la Nato, le quali non potranno sostenere nel lungo periodo uno sforzo economico e militare come quello attuale e dovranno pensare a un cambio di strategia. Significa che alla lunga la pazienza russa l’avrà vinta e che il prevaricatore capace di usare la forza per imporre la propria logica imperialista con i missili potrà cantare vittoria? Nessuno, se non tra gli estimatori di Putin, auspica un tale epilogo. Né ci si può rassegnare a esso, anche se non lo si desidera. Chi prova a muovere le fila della diplomazia ne è consapevole. Non agisce per svendere la causa della libertà e della democrazia, né può dimenticare le sofferenze patite dal popolo ucraino, più volte definito martire dal Papa. Attualmente, non c’è un piano di pace accettabile da tutte le parti. Ma un’intesa si può creare un passo alla volta, riaprendo canali di comunicazione e mettendo sul tavolo condizioni e offerte.
Forse l’accordo arriverà lavorando più su alleati e Paesi non allineati, perché non siano complici del Cremlino bensì facciano sentire la giusta pressione a Putin. È davvero difficile immaginare un equilibrio post-bellico non segnato da ingiustizie e tensioni. L’esempio del Kosovo inquieto è tornato a ricordarcelo proprio in queste ore. Le violenze etniche, l’intervento Nato, i nuovi confini, la convivenza difficile tra albanesi e serbi, il mancato riconoscimento dell’indipendenza da parte di Russia e Cina (ma anche di altre decine di nazioni), il rischio di nuove esplosioni di nazionalismo armato. Eppure, chi non pensa che sia meglio una situazione in stile Kosovo ancora non veramente pacificato rispetto a una Ucraina violentata ogni giorno di più, con conseguenze globali? Non si invoca la resa, ripetiamolo. Ma uno sforzo di realismo coniugato con l’umanità. Quello per cui si lavora sottotraccia e si aspetta l’allargarsi di nuovi spazi di speranza.
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