La nuova frontiera della delocalizzazione? È tornare a casa: in Italia e all’estero, sempre più imprese stanno facendo dietrofront rispettoalla scelta che aveva invece caratterizzato gli ultimi vent’anni, cioè portare la produzione, tutta o in parte, oltreconfine. A partire dagli anni Novanta centinaia di aziende avevano deciso di realizzare i propri prodotti in Cina, Sudest asiatico o Europa dell’Est, attratte dalla prospettiva di ridurre i costi di produzione e aumentare i profitti. Ora la tendenza si sta invertendo e molte di quelle stesse aziende stanno tornando in patria, perché i vantaggi economici della delocalizzazione, a conti fatti, non sono poi così grandi, mentre la garanzia di un prodotto interamente realizzato in Paesi come l’Italia è un valore aggiunto sempre più apprezzato dal mercato. Il fenomeno si chiama 'back reshoring', o rilocalizzazione, e dal 2010 è oggetto di studio da parte del consorzio interuniversitario Uni-Club MoRe Back-Reshoring, che coinvolge gli atenei di Modena-Reggio Emilia, Catania, L’Aquila, Udine e Bologna. «I primi casi si sono verificati a partire dal 2008/2009 – spiega Luciano Fratocchi, docente di Ingegneria economicogestionale all’università dell’Aquila e tra i fondatori del consorzio – e sono aumentati finché il back reshoring non è diventato un tema di politica industriale in molti Paesi, come Stati Uniti e Gran Bretagna. Qui ad esempio il fenomeno è cresciuto velocemente negli ultimi due anni, tanto che il premier Cameron ha annunciato, al meeting di Davos del gennaio 2014, che vuole fare del Paese la patria del back reshoring». Ma in testa alla classifica europea c’è proprio l’Italia, che spicca per il numero delle decisioni: una sola azienda può infatti scegliere, ad esempio, di riportare in patria le produzioni realizzate in Cina e Romania, e in questo caso si contano due decisioni di rilocalizzazione. In Italia la media è di 1,2 decisioni per azienda: grazie proprio a questo dato il nostro Paese è primo in Europa davanti alla stessa Gran Bretagna e alla Germania. Nei primi tre posti della classifica troviamo le due più grandi manifatture europee: il Vecchio Continente sta infatti riscoprendo la propria vocazione manifatturiera, e questa è una delle ragioni principali alla base del fenomeno. «Dopo la sbornia dell’economia della conoscenza e il boom dell’Ict, si sta prendendo consapevolezza del fatto che questi settori, per quanto importanti, non potranno mai fornire occupazione a tutta l’Europa – nota Fratocchi –. Anche l’Ue ha riconosciuto questa necessità, stabilendo l’obiettivo di tornare ad avere il 20% del Pil di origine manifatturiera entro il 2020. Attualmente la percentuale è intorno al 6%». Via libera quindi al ritorno della produzione negli stabilimenti 'di casa': una scelta che deriva dalla valutazione di diversi parametri. Tra questi c’è l’aumento del costo del lavoro per unità prodotta in diversi Paesi, come la Cina, dove si stanno intensificando le rivendicazioni dei lavoratori per ottenere salari e condizioni migliori. In più, i costi di trasporto e di logistica incidono in maniera sempre più significativa sui costi totali del prodotto. Questo è vero in particolare per settori come quello del 'fast fashion', la moda low cost delle catene come Zara, in cui i tempi di realizzazione delle collezioni sono molto ridotti e il riassortimento dei cataloghi è continuo: chi produce questi abiti in Cina deve mettere in conto almeno cinque settimane di nave veloce. Per questo, ad esempio, la stessa Zara ha deciso di portare la produzione più vicino, nel bacino del Mediterraneo, dando vita così al fenomeno conosciuto come 'near reshoring'. C’è poi l’effetto 'made-in', particolarmente importante per le aziende italiane e in generale per quelle che puntano molto sulla qualità del prodotto, come ad esempio le imprese calzaturiere spagnole di fascia medio-alta. er i prodotti simbolo del made in Italy la garanzia di una realizzazione a regola d’arte è fondamentale: sempre più clienti stranieri chiedono prodotti italiani certificati, e il 40% dei fenomeni di back reshoring nel nostro Paese riguarda proprio il settore del fashion. «Grandi marchi dell’alta moda come Prada stanno spostando sempre più la produzione in Italia, tornando ad affidarsi ai terzisti del nostro Paese – sottolinea il ricercatore –. Un’altra realtà Per i prodotto singoli del made in Italy la garanzia di una realizzazione a regola d'arte è fondamentale: sempre più clienti stranieri chiedono prodotti italiani certificati e il 40% dei fenomeni di back reshoring nel nostro Paese riguarda proprio il settore del fashion. "Garndi marchi dell'alta moda come Parda stanno spostando sempre più la produzione in Italia,tornando ad affidarsi ai terzisti del nostro Paese -sottolinea il ricercatore -. Una realtà che ha scelto la rilocalizzazione, ad esempio, è l’azienda pellettiera toscana Piquadro, che ora ha in catalogo una linea 100% made in Italy. Per le sue borse e valigie Piquadro ha sempre utilizzato pelli italiane, che però spediva in Cina per la confezione: a un certo punto i vertici hanno compreso che non conveniva, perché il materiale finito che arrivava dal Paese del Dragone spesso non possedeva gli standard di qualità richiesti». Il design italiano non basta: chi compra made in Italy vuole anche l’eccellenza della lavorazione artigianale, un know-how che è difficile trovare fuori dall’Italia. Così anche Nannini, altra azienda toscana di pelletteria, ha messo in atto un processo di rimpatrio della produzione, prima affidata a terzisti nei Paesi dell’Est. E anche la collezione di fascia alta dei divani Natuzzi, in base a un accordo sindacale del 2013, tornerà a essere realizzata in Puglia e Basilicata. Una delle regioni d’Italia più interessate dal fenomeno è il Veneto, che ha visto negli ultimi anni il ritorno a casa di aziende come Safilo (occhiali) e Columbia (camiceria), oltre a diverse realtà del distretto calzaturiero della riviera del Brenta. «Per queste aziende è stato chiaro che valeva la pena puntare sulla qualità e investire sul marchio made in Italy, il terzo più noto al mondo dopo Coca-Cola e Google – spiega Massimo Meneghetti, segretario generale della Femca Cisl Veneto –. Ad esempio Safilo, che attualmente realizza il 30% della produzione in Italia e il 70% all’estero, nell’ultimo piano industriale ha fissato come obiettivo l’inversione delle percentuali entro il 2020». Una decisione che i sindacati hanno accolto con soddisfazione: «Per noi realizzare i semilavorati all’estero, lasciando in Italia solo il finissaggio, era una scelta sbagliata, e vedere che l’azienda ha cambiato idea ci gratifica». La rilocalizzazione non riguarda però solo le aziende di moda e design: anche diversi produttori di beni di largo consumo hanno scelto di tornare in Italia, come nei casi di Generale Conserve, che ha riportato dal Portogallo a Olbia, in Sardegna, l’intero ciclo produttivo del tonno Asdomar; Artsana, che realizza prodotti per l’infanzia (con marchi come Chicco e Prénatal) e per la bellezza, e ha deciso di abbandonare la produzione in India, Cina e Corea; Beghelli, che dal 2013 ha avviato il disinvestimento dagli stabilimenti di Cina e Repubblica Ceca. Peculiare anche la storia di Fiamm (batterie per auto): «In quest’ultimo caso – nota Fratocchi – abbiamo avuto una dimostrazione concreta dei vantaggi di questa scelta: lo stabilimento di Avezzano (L’Aquila) che era destinato alla chiusura, è rimasto aperto, mantenendo decine di posti di lavoro. La storia di Fiamm prova inoltre che ritornare in patria è possibile, anche in settori caratterizzati da alti costi di produzione come quello delle batterie per auto». Secondo Meneghetti, il back reshoring è un segnale di speranza per il territorio. «Credo che tutti questi imprenditori si siano illusi che delocalizzare avrebbe permesso loro di diventare più competitivi e aumentare i margini. Il problema è che chi è andato all’estero si è reso conto che produrre lì non è come produrre in patria, e quindi hanno deciso di tornare. Speriamo che la rilocalizzazione sia in grado di spingere le imprese ad andare avanti, attrarre nuovi investimenti e creare posti di lavoro».
L'Italia prma in Europa per "rientri" di aziende dall'estero. A fare da traino il settore dell'abbigliamento e del design. Obiettivo: puntare sulla qualità.
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