In tutto il mondo, negli ultimi trent’anni la tassazione sul reddito si è gradualmente "appiattita". La flat tax (letteralmente tassa piatta) è stata adottata in una trentina di Stati. Tra questi vi sono molti Paesi in via di sviluppo o economie dell’Europa dell’Est. Anche laddove la tassazione rimane formalmente progressiva, in questi anni si è spesso ridotto il numero delle aliquote e la distanza tra di esse, ottenendo di fatto un graduale appiattimento della tassazione. Consideriamo infine che in Italia da anni si pagano delle aliquote piatte sui redditi da locazione e sulle rendite finanziarie. Insomma, una prima constatazione da fare è che le tasse sul reddito si stanno appiattendo da ben prima delle elezioni del 4 marzo 2018 e ben oltre i confini italiani.
È utile vedere più in dettaglio la madre di tutte le riforme sul tipo flat tax, che è quella introdotta in Russia nel 2001. In quel caso si passò da un’imposta progressiva (aliquote 13% 21% e 31%) a una piatta del 13%. Nello stesso anno l’economia russa crebbe molto e così fece negli anni seguenti, ma va anche detto che l’economia era già in crescita almeno dal 1999. Il dato sensazionale che ha attirato l’attenzione di molti riguarda però la crescita del gettito fiscale generato dalla tassa, che in tre anni è aumentato del 50%. Sulla scorta di questo successo, molti Paesi soprattutto dell’Europa dell’Est hanno adottato riforme simili, anche se quel successo non è stato più replicato. L’unicità dell’esperienza russa rispetto alle esperienze precedenti e successive deve suscitare riflessioni e domande. È stata davvero la flat tax a indurre la crescita economica? Ed è stata davvero la flat tax a fare aumentare il gettito?
Per rispondere occorre fare un passo indietro. I fautori della flat-tax sostengono che essa otterrebbe due effetti. Il primo riguarda l’aumento della propensione delle persone a lavorare, e quindi a generare reddito. Questo è l’argomento classico dell’economista Arthur B. Laffer che ispirò le politiche reaganiane e thatcheriane negli anni Ottanta del Novecento. Il secondo effetto presunto ha a che fare con una radicale semplificazione della tassazione che indurrebbe una riduzione drastica dell’evasione fiscale.
Tornando alla riforma russa, uno studio economico importante (Gorodnichenko et al. J. of Pol Ec. 2009) ha provato a rispondere alle due domande poste precedentemente e ha concluso che la flat tax non ha prodotto più crescita economica, ma che essa ha contribuito ad aumentare il gettito fiscale. Insomma, dei due effetti ipotizzati dai sostenitori della flat tax il primo (aumento della propensione a lavorare) non si è verificato, mentre il secondo (riduzione dell’evasione fiscale) sì.
In altre parole, l’effetto potenzialmente più rilevante della flat tax è quello di semplificare la vita al contribuente e anche all’Agenzia delle Entrate e quindi, probabilmente, far diminuire l’evasione. Perché funzioni, però, essa deve essere radicalmente semplice e quindi deve sostanzialmente ridursi a una sola aliquota con nessun meccanismo di deduzione e detrazione che vada calcolato ex-post. A queste condizioni la flat tax potrebbe essere nella maggior parte dei casi ritenuta direttamente alla fonte.
La flat tax, quindi, può essere una misura positiva, ma non perché può produrre più crescita quanto piuttosto perché può far emergere l’evasione fiscale. Siamo qui a un risultato contro-intuitivo e persino paradossale: se la flat tax riducesse davvero significativamente l’evasione, e il gettito aggiuntivo venisse redistribuito, essa potrebbe persino ridurre le diseguaglianze più di quanto faccia una tassazione progressiva.
Infatti, se questa ipotetica flat tax funzionasse ci sarebbero sostanzialmente tre categorie di persone: la prima è quella delle persone che pagavano le tasse con aliquote alte e che nella nuova condizione pagherebbero di meno, la seconda categoria è quella delle persone che prima godevano di ampie deduzioni e detrazioni e che ora pagherebbero di più e infine la terza categoria è composta da quelli che prima evadevano e ora invece pagherebbero l’imposta. Se le tasse pagate dalla seconda e dalla terza categoria sono maggiori delle tasse non più dovute dalla prima categoria allora il gettito aumenta e così anche la redistribuzione.
È possibile che la flat tax proposta oggi in Italia ottenga questi risultati straordinari? Questo giornale già ha dedicato interessanti approfondimenti su questa cruciale domanda. Ragioniamo, brevemente, su almeno due motivi di scetticismo. Il primo motivo è che la proposta che sta circolando in questi giorni si riferisce a una tassa non proprio piatta perché composta da due aliquote e che mantiene un sistema di deduzioni e detrazioni, anche se semplificate. Insomma, rimarrebbe in campo una tassa complicata e difficilmente la sua introduzione otterrebbe quell’effetto di semplificazione radicale che è poi l’unico motivo del successo dell’esperienza russa.
Il secondo e più forte motivo di scetticismo è il seguente: davvero la riforma fatta in Russia o in altri Paesi in transizione potrebbe funzionare qui da noi? Uno studio economico (Fuest et al. Int. Tax & Pub. Fi. 2008) ha provato a simulare una riforma di flat tax in una Paese come la Germania giungendo alla conclusione che potrebbe migliorare un po’ la crescita economica a fronte di un aumento delle diseguaglianze. Essendo l’evasione fiscale già relativamente bassa, la flat tax applicata in Germania non comporterebbe quei benefici discussi in precedenza, ma si ricadrebbe nel solito scambio tra crescita e diseguaglianza. Se vogliamo quindi seriamente capire se la flat tax possa essere o no una buona idea per il nostro Paese, dobbiamo porci la questione se assomigliamo di più alla Germania oppure alla Russia.
Professore associato di Politica Economica, Università Lumsa